L’approdo clamoroso di Elon Musk nella nuova Amministrazione di Donald Trump ha riscaldato una questione storica nelle democrazie occidentali: quella dei rapporti fra affari e politica. La stessa campagna elettorale per la Casa Bianca è stata vetrina di un’impasse: l’aggiustamento delle relazioni fra poteri pubblici e Big Tech (un club di quasi-monopolisti), che soprattutto i democratici puntavano a disciplinare in un secondo quadriennio Biden, soprattutto nell’orizzonte dell’intelligenza artificiale.



Quello dell’economia digitale è peraltro un fronte su cui l’Ue è in azione da anni attraverso la sua autorità antitrust: chiamata ora prevedibilmente a un impegno ancora maggiore. Ma già una vicenda interna all’Ue – come il tentativo di scalata di UniCredit a Commerzbank, in sé operazione di mercato – ha registrato uno stop rude da parte del Governo tedesco. A Berlino ha subito replicato in termini problematici Teresa Ribera, ex vicepremier spagnola neo-designata alla Concorrenza nella nuova commissione Ue guidata da Ursula von der Leyen. Ma proprio Ribera – in sede di fiducia finale da parte dell’europarlamento – ha visto la sua nomina indebolita da un gioco di opposizioni, fra Governi ed europartiti.



Non è quindi parsa la partenza migliore né sul piano operativo corrente, né sullo sfondo di riflessioni che appaiono sempre più di momento sul futuro ruolo delle autorità antitrust. Resta certamente rilevante il loro ambito tecnico-strumentale: quali strutture, quali tecnologie, quali regolamentazioni possono sostenere l'”enforcement” della vigilanza sui mercati a fini di loro massima efficienza e trasparenza. Ma l’attualità sta facendo emergere una domanda più basica: che riporta alle origini stesse dell’antitrust negli Stati Uniti, alla fine del secolo diciannovesimo.



Lo Sherman Act del 1890 fissò un primo muro legale-istituzionale contro i “trust”. Questi erano frutto di aggregazioni “selvagge”, maturate innumerevoli nel capitalismo rampante Oltre Atlantico dopo la guerra civile: fra West ed East, fra ferrovie e acciaierie, fra banche e Wall Street, non ultimi i media. Il problema cruciale non era tanto o solo l’emergere di vere o presunte posizioni dominanti su mercati che si allargavano di giorno in giorno. Era invece la pressione che corpi economici sempre più giganti portavano su un’architettura istituzionale ancora “old”. Il gioco democratico stesso risultava sempre più inquinato dai “grandi fratelli” finanziari: benché il fenomeno fosse strutturale fin dal secolo precedente, quando nell’anglosfera prese forma la governance liberaldemocratica.

L’antitrust Ue è cresciuta e deve continuare a crescere come “cane da guardia” della concorrenza sul mercato contro monopoli e oligopoli, contro concentrazioni troppo spinte, egemonizzate dalla finanza a scapito dell’economia reale (cioè degli imprenditori innovatori, dei loro dipendenti, dei loro clienti-utenti). Non può deflettere neppure la trincea contro sbarchi statunitensi diversi da quelli che liberarono l’Europa dal nazifascismo. Ma su un pianeta che sta tumultuosamente ridisegnando le sue mappe, l’Europa non può limitarsi a decidere con criteri tecnici quali siano le dimensioni accettabili o meno di un gruppo più grande nel perimetro dei Ventisette. Sarebbe invece opportuno ripensasse anche i confini fra la sfera economica e quella politica. In questo non è escluso possa tornare a dare qualche buon consiglio di democrazia all’Occidente d’Oltre Atlantico.

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