“Con la poesia e insieme attraverso la poesia, con la musica e attraverso la musica, l’anima intuisce la luce che splende al di là della tomba”. Forse non è casuale che sia proprio Baudelaire, lui, il poeta maledetto, ad affermare che siamo capaci di intuire lo splendore di una luce al di là della tomba. Proprio quando la vita si carica di angoscia e diventa maledettamente faticosa, allora, fosse solo per un istante, avvertiamo il bisogno di spezzare il cerchio e di affidarci a quella luce anche solo intuita. Sarà perché questi sono i giorni in cui la presenza dei defunti ci è più vicina, o forse sarà perché il male nella sua brutalità non smette di ferirci, il male delle centinaia di morti travolti dall’alluvione, il male della guerra, il male di quelle efferatezze che la cronaca quotidiana non ci risparmia, ma è certo che non possiamo evitare di tendere ad una luce che possa splendere al di là della tomba. Ma perché rivolgerci proprio alla poesia? Per goderci un attimo di evasione? Qualche fruscio dell’animo che ci appaghi con un istante di bellezza per poi lasciarci ripiombare nel grigiore delle piccole o grandi tombe quotidiane?
Ecco, questa è la grande questione! Possiamo immaginarci la vita come un continuo tentativo di fuga da ciò che ci angoscia, come la ricerca di istanti di sicurezza, come rifugio in una qualche comfort zone che ci salvi dall’ansia? Se così fosse, o meglio se sempre così fosse, dovremmo veramente domandarci con Eliot “dove è la vita che abbiamo perduto vivendo?”. Ma la realtà è sempre ricca di imprevisti. E allora può succedere di imbattersi in chi, come Sammy Basso, dopo avere vissuto 28 anni affetto da una malattia terribile, se ne va dicendoci che per lui “non c’è mai stata nessuna battaglia da combattere, ma solo una vita da abbracciare per com’era, con le sue difficoltà, ma pur sempre splendida, semplicemente un dono che mi è stato dato da Dio”. O può accadere anche a noi di trovarci per un attimo capaci di lasciarci sfidare dalla realtà, capaci di affrontarla, perché magari abbiamo incontrato uno sguardo di amore e di stima che ci ha abbracciati o perché l’amore per una persona cara ci ha fatto rialzare la testa dandoci quel coraggio e quell’energia che mai avremmo immaginato di avere. E così proprio il rapporto con il reale ci restituisce alla nostra umanità.
Scriveva a metà del Novecento Maria Zambrano “Quello che è in crisi, sembra, è quel misterioso nesso che unisce il nostro essere alla realtà, qualcosa di tanto profondo e fondamentale da essere il nostro intimo sostentamento”. Ma quella luce al di là della tomba che la poesia ci farebbe intuire, come diceva Baudelaire, ha a che fare con questa realtà di cui siamo così bisognosi? La poesia ci fa evadere dalla realtà o ce ne fa cogliere la profondità?
La poesia parla di natura, di cose, di fatti, di persone, di sentimenti, di vita e di morte. Tutti fattori che la vita di ognuno di noi ben conosce. Ma quando a parlarne è il poeta, qualcosa si svela, e anche il più infimo pezzetto di realtà vibra di senso. Un fiore, la lava indurita di un vulcano, il semplice saluto di una donna, addirittura un soldato massacrato o una rana gracidante, diventano capaci di parlare al cuore, di commuoverci. Proseguiva Baudelaire nel brano citato: “Quando una poesia perfetta fa nascere le lagrime agli occhi, queste lagrime non sono segno di eccessiva gioia, ma piuttosto indice di una malinconia esasperata, di una natura esiliata nell’imperfetto che bramerebbe possedere subito, in questo mondo, un paradiso rivelato”.
La poesia incontra quel punto misterioso del nostro io che desidera il paradiso rivelato, che desidera la felicità, il compimento, la perfezione. Ecco perché la poesia ci commuove. E quando le lacrime bagnano gli occhi, quando la commozione ci prende, quando la natura esiliata riprende a desiderare, questo è il segno che il cuore arde.
È difficile a questo punto non fare riferimento alla recente Enciclica Dilexit Nos che papa Francesco ha dedicato al cuore di Gesù. Perché, nella prima parte dell’ ampio e denso documento, per farci capire cosa sia il cuore, il Papa attraversa l’esperienza del nostro cuore di uomini, perché “abbiamo bisogno di recuperare l’importanza del cuore” (DN 2), perché “quando si coglie una realtà con il cuore si può conoscerla meglio e più pienamente” (DN 16). E ci indica la strada per non perdere il nostro cuore. “Invece di cercare soddisfazioni superficiali e di recitare una parte davanti agli altri, la cosa migliore è lasciar emergere le domande che contano: chi sono veramente, che cosa cerco, che senso voglio che abbiano la mia vita, le mie scelte o le mie azioni, perché e per quale scopo sono in questo mondo, che significato vorrei che avesse tutto ciò che vivo, chi voglio essere davanti agli altri, chi sono davanti a Dio. Queste domande mi portano al mio cuore” (DN 8).
E se abbiamo il coraggio di lasciarci provocare da queste domande, se accettiamo che la realtà ci risvegli, che il cuore torni a battere, allora la partita della vita si riapre. E torneremo ad accorgerci della bellezza del reale, ma anche della sua drammaticità, della sua misteriosa imprevedibilità ma anche delle sue tragiche contraddizioni. E lasciandoci ancora accompagnare dalla poesia, questa volta di Ungaretti, potremo forse anche noi dire “Chiuso fra cose mortali / ( anche il cielo stellato finirà)/ Perché bramo Dio?”.
Veramente la cosa più grande che il rapporto con la realtà ci regala è l’approdo a questa brama di infinito, alla brama di Dio. Di fronte alle immagini strazianti di Valencia cosa possiamo immaginare di più umano del nostro cuore che desidera il Mistero e del cuore di Gesù che ci ama? Dilexit nos.
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