Una delle ricette storiche di politica finanziaria – “tax-and-spend”, tradizionalmente cara alle sinistre – è tornata prepotentemente alla ribalta. Il successo o meno dell’ennesimo show è legato in gran parte all’esito del voto presidenziale negli Usa. Se oggi prevarrà Kamala Harris, una delle poche certezze del suo programma è l’intento di aumentare la pressione fiscale (fino a 5 trilioni di dollari stimati nei prossimi 9 anni), principalmente a gravare su imprese e redditi alti. Sarebbe questa la leva perché una futura Amministrazione “dem” possa disporre nel bilancio federale (in ulteriore deficit/debito) di una potenza di fuoco fino a 9 trilioni: sia per sostenere la classica spesa sociale – anzitutto sanitaria -, sia per alimentare i grandi piani avviati in stile New Deal da Joe Biden, con finalità di transizione energetica e di rilancio industriale interno, anche con obiettivi di rafforzamento militare.
A Londra, intanto, il Governo laburista in carica da quattro mesi ha presentato il suo budget. Com’era nelle attese, la manovra costruita dal cancelliere dello Scacchiere Rachel Reeves è stata disegnata sul format “tax & spend”, alzando le tasse per 40 miliardi di sterline (oltre 50 in dollari) con appesantimenti sensibili anzitutto sui redditi da capitale. Si tratta del primo passo di una strategia “Rebuilding Britain” che già l’anno prossimo dovrebbe vedere la spesa pubblica salire di 70 miliardi di sterline. In parte andrà ad ambiti sociali come il National Health Service, su vari fronti: aumenti retributivi dopo un biennio di inflazione; assunzioni e investimenti strutturali in un sistema messo a dura prova dalla pandemia. Ma anche la Gran Bretagna, dopo 14 anni di Governi conservatori, vuole rilanciare una politica industriale e infrastrutturale: come gli Usa con un occhio particolare alla difesa (che per Londra è anche un’importante voce di export).
Ad additare il “tax & spend” del gabinetto Starmer è stato nei giorni scorsi l’ex Premier italiano Mario Draghi, ex Presidente della Bce. Una voce non del tutto attesa da parte di un economista-tecnocrate di tradizione culturale liberista; ma certamente coerente con le posizioni recenti di Draghi: quelle che lo hanno portato a ispirare prima il Recovery Plan post-Covid nell’Ue per poi riproporne le linee strategiche nel documento sulla competitività dell’Azienda-Europa, preparato su richiesta di Ursula von der Leyen, confermata alla guida della Commissione di Bruxelles. Alla base del Draghi-pensiero c’è sempre il concetto di “debito buono” esposto per la prima volta al Meeting di Rimini del 2020. Nell’orizzonte delle teorie keynesiane ortodosse (quelle che hanno sorretto il Piano Marshall e tutte le politiche economiche della ricostruzione nel dopoguerra) uno stimolo pubblico mirato agli investimenti può conseguire risultati importanti sulla crescita: non solo nel breve periodo e anche in deficit iniziale.
L’ex Premier italiano lo ha proposto a livello europeo, con un impegno iniziale di circa 800 miliardi di euro, paragonabile a quello stanziato quattro anni fa per finanziare i Pnrr dei Ventisette fuori dalla pandemia e sulle rotte della transizione energetica e digitale. Il “Rapporto Draghi” resta sui tavoli della nuova Commissione, in attesa della sua entrata in carica. Non ha ricevuto un’accoglienza calda presso la tecnocrazia di Bruxelles, gelosa dei propri parametri restrittivi (certamente per un Paese come l’Italia). Non è stata apprezzata in Germania, dove però proprio in queste ore il Governo rosso-verde di Olaf Scholz deve sciogliere un nodo gordiano: varare per il 2025 (anno elettorale) una manovra espansiva, anche per avviare una vera e propria ricostruzione del sistema manifatturiero colpito dalla crisi geopolitica; oppure continuare a rispettare nella sostanza, prima che nelle regole, il mantra tedesco del rigore assoluto nei conti pubblici. La stessa Francia è a metà di un guado difficile: il Governo Barnier vuole riequilibrare i conti e ha proposto un aumento della tassazione su grandi gruppi e grandi fortune; ma d’altro canto una sorta di mandato super partes gli impone di non indebolire né la spesa sociale, né gli investimenti in innovazione.
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