Che cosa c’è di allegro in questo maledetto paese? Perché a dicembre, ogni anno, il mondo sembra impazzire? Che cosa c’è da festeggiare mentre donne, uomini e bambini continuano a morire a Gaza come a Kiev, a Damasco come in qualunque altra parte del mondo?
Non bisogna avere paura di queste domande. Non per tutti, infatti, è un buon Natale, non per tutti sarà un felice anno nuovo: quello che leggiamo in centinaia di migliaia di auguri, manifestini e immaginette, spesso non è vita, spesso sono “frasi fatte” che non hanno altro esito se non quello di amplificare il dolore che molti provano durante le feste natalizie.
È come se questi giorni, e i loro rituali, obbligassero a prendere atto che una persona non c’è davvero più, che un matrimonio è davvero finito, che una malattia è davvero arrivata a cambiare tutto, che una fase della vita è davvero conclusa. Quanta distanza a volte avvertiamo tra quello che il Natale, e il clima che lo circonda, promette e quello che è la drammaticità della nostra esistenza! Questa distanza, passata la sbornia delle feste, ci restituisce al rapporto con gli altri, al nostro lavoro, ai nostri desideri legittimi un po’ più poveri, meno attrezzati, certamente più affaticati, distratti e cinici.
“Sento il mio cuore tanto stanco di amarti così male” diceva Cesare Pavese. E anche noi, in fondo, siamo stanchi di non saper amare il buio, l’ingiustizia, la paura, al punto tale da saperla vivere e superare. Anche noi ci sentiamo, e ci ritroviamo davanti alle circostanze, con il cuore piccino, soli. Che cosa c’è dunque da festeggiare? Dov’è quella gioia che la fede promette e che la Chiesa solennizza col dono del Giubileo, che si apre proprio in questi giorni?
La Bibbia racconta che Dio, fin dall’inizio, ha avuto ben presente tutto questo. “Non è bene che l’uomo sia solo” dice il Signore nei primi capitoli della Genesi. Proprio perché ne percepisce il dolore, Dio prepara ad Adamo una vita che gli sia simile: la solitudine, dice il testo, può essere rotta soltanto da un’altra vita, da una vita che ci sia simile. È la consapevolezza che Giorgio Gaber urla nella sua Canzone dell’Appartenenza: “Uomini, Uomini del mio presente, non mi consola l’abitudine a questa mia forzata solitudine. Io non pretendo il mondo intero, vorrei soltanto un luogo, un posto più sincero, dove magari un giorno molto presto io finalmente possa dire: questo è il mio posto”.
Quello che il nostro cuore ferito aspetta è una vita che ci sia finalmente simile, una vita dove poterci sentire al posto giusto, una vita dove poterci percepire a casa. Tutta la cultura in cui siamo immersi, al contrario, è una grande esortazione a perseguire la vita che vogliamo vivere, tutti i moralismi di cui si è nutrito l’Occidente invitano altresì a non allontanarsi dalla vita che il dovere ci impone di vivere. Alcuni, i più prudenti o forse i più disillusi, affermano che l’unica vita che è da ricercare è quella che possiamo riuscire a vivere.
La Sacra Scrittura, dunque, in un modo sorprendente, ci dice che non è quello che vogliamo che ci libera dal dolore, neppure quello che dobbiamo o che possiamo. Ciò che ci libera, ciò che ci salva, è una vita che ci sia simile. Natale è l’annuncio che questa vita è entrata nel mondo. Finalmente uno che ha sofferto, uno che ha pianto, uno che è morto, nasce per noi. Il Natale è la risposta decisiva di Dio al cuore dell’uomo. Una risposta che avviene nella natura umana.
Eppure, nemmeno questo – che è l’annuncio più grande della storia – riesce a farci davvero contenti. È proprio per questo motivo che la narrazione dei Vangeli, che è anzitutto una narrazione teologica dei fatti, non smette di sottolineare che attorno a quel bambino – che doveva soffrire, piangere e morire – c’era stupore, c’era gioia. Natale non è la festa in cui bisogna essere contenti, Natale è la festa in cui guardare Uno che è contento. È Lui che è contento, è Lui che è felice. La notizia sta tutta qui: una vita simile alla nostra, sofferente come la nostra, con le lacrime come la nostra, destinata a sperimentare la morte come la nostra, è contenta, è gioiosa, è felice.
È questo fatto inspiegabile che ci riempie di stupore, che ci lascia sconcertati, attoniti. Vuoi vedere che anche per me che sono solo, che non so più chi sono, che ho perso tutto, è possibile ricominciare? Vuoi vedere che, seguendo Lui, è possibile che anche le terre di Ucraina, di Siria e di Palestina, ritrovino la pace? Vuoi vedere che si può di nuovo sperare?
Cristo è la fine di ogni solitudine, è la compagnia definitiva di Dio all’uomo, una compagnia che riempie la storia di una gioia impossibile a qualunque costruzione umana e che ridona a tutti la speranza.
C’è speranza, dice il Giubileo della Chiesa cattolica. Si può essere pellegrini di speranza. Come i pastori, richiamati dalle loro grotte altrimenti destinate a un angusto anonimato, come i Magi, sconosciuti forestieri alla sequela di una stella. Come ognuno di noi che, rompendo gli indugi e qualche piccola traccia d’orgoglio, possiamo davvero festeggiare. E aprire il cuore alla Grazia del Natale.
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