Perché il vuoto (in noi) diventi domanda

Cristo raggiunge la nostra carne oggi come allora, come a Betlemme duemila anni fa. Noi siamo la Grazia di Qualcuno che ci fa in ogni istante

“A che gioverebbe a te che Cristo una volta sia venuto nella carne, se Egli non giunge oggi fin nella tua carne?” (Origene, In Lc. hom 22,3). Questa domanda dell’antico teologo e filosofo greco Origene ha tutta l’intenzione di non farci scappare dal cuore del mistero del Natale che stiamo celebrando. La sua preoccupazione, di passare dalla lettera allo spirito delle Scritture, lo ha portato a dei punti di sintesi inarrivabili. Un’amica, in questi giorni, mi diceva: “Quanti auguri vuoti che ci scambiamo”. In effetti, se dovessimo guardare con attenzione alle frasi che ci diciamo, a dove guardano gli occhi mentre le diciamo, a dove si trova il nostro cuore mentre le parole escono dalla bocca, non potremmo che condividere la sua constatazione.



Poi, però, accadono delle cose che ridimensionano i nostri giudizi. Quest’anno, per esempio, sono stato colpito dal numero di persone che, all’inizio della Confessione natalizia, hanno esordito così: “È tanto che non mi confesso, ma quest’anno ho deciso di tornare”. E alla mia domanda: “Perché?”, la risposta è sempre stata la stessa: “Sentivo un vuoto”. Erano giovani e meno giovani che, a un certo punto, hanno preso sul serio non anzitutto la fede, ma se stessi.



Il primo passo è sempre una tenerezza verso se stessi che ci costringe a verificare cosa regge e cosa no, cosa riempie il vuoto e cosa lo fa aumentare. Come, genialmente, disse don Giussani: “La prima conseguenza dell’affezione a Cristo è la scoperta dell’amore, della tenerezza verso se stessi; lo stupore, l’ammirazione, la venerazione, il rispetto, l’amore a sé, a sé! Perché, quando uno dice ‘l’amore a me stesso’, dice l’amore a un Altro che lo sta facendo, l’amore al dono di un Altro: io sono grazia”. E continua, affrontando la grande sfida dell’unità: “Guardate, per favore: come si fa a fare unità con la donna, a fare unità coi figli, a fare unità con l’amico, a fare unità con l’estraneo, a fare unità addirittura col nemico, a fare unità con le cose, a fare unità col cielo e la terra, a fare unità con la società, a fare unità col tempo e con la storia, a fare unità nel mondo, come si fa a fare unità, se io sono diviso da me, se il soggetto che deve fare questa unità è diviso? E se uno non ama se stesso è diviso”. (Luigi Giussani, Una strana compagnia, BUR, Milano 2017, p. 248).



La possibilità di questa unità si è affacciata nella storia con l’Incarnazione del Verbo che ha unito cielo e terra, umano e divino, svelando all’uomo la portata della propria natura, spesso grazie a quel vuoto che sentiamo quando non è Lui la risposta che stiamo verificando. Che gli auguri di questi giorni non siano vuoti, che quello che ci diciamo non sia vano, che il nostro festeggiare abbia un’anima, è garantito solo dal fatto che Cristo possa raggiungere la mia carne oggi, realizzando una familiarità come quella di un bambino che, dopo la s. Messa della vigilia di Natale, mi è venuto incontro con un disegno. In alto c’era scritto: “Da Giovanni per Gesù”. Che il Mistero creatore di tutto abbia deciso di mettersi nella condizione di ricevere un regalo da parte nostra è proprio una cosa dell’altro mondo, in questo mondo. Così il vuoto diventa domanda.

 

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