Forse a fine anno si può dire con più serenità: la scuola è una cosa importante. È un’affermazione che certamente trova un ampio consenso, anche se la parola “scuola” non ha per tutti lo stesso significato. Diverse sono le idee e le interpretazioni che si danno di un’istituzione che è centrale nella crescita umana e intellettuale di ciascuno. Eppure, tra le molteplici visioni del mondo, osservazioni un po’ paradossali possono essere utili a fermarsi e a riflettere. Occorre semplicemente tornare alla vita della famiglia di Gesù Cristo, quella che la tradizione chiama Sacra Famiglia, e figurarsela alle prese con il problema dell’istruzione del fanciullo. Non è difficile immaginarsi che Maria non avesse a cuore il problema delle ore aggiuntive di inglese potenziato e che Giuseppe non stesse ore a spulciare il PTOF sul portale delle scuole di Nazareth per capire in che modo si attuassero i progetti della sezione musicale.
Gesù non è sicuramente stato portato agli open day, non ha fatto laboratori di tedesco o di cinese, non si è curato di sapere se a scuola permettessero di uscire qualche minuto prima per prendere la diligenza ed evitare di mangiare troppo tardi. È altrettanto chiaro che non sappiamo se gli eventuali docenti di Cristo avessero individuato in Lui uno svantaggio sociale – con quella brutta storia della gravidanza che ancora circolava in paese – fino al punto da voler stendere per il ragazzino un piano didattico personalizzato con tempi aggiuntivi per le prove scritte.
Nessuno, poi, si sarà posto il problema del pagamento della gita di seconda media a Gerusalemme o dell’alternanza scuola-lavoro nella carpenteria del papà. Anche l’orientamento, con i nuovi tutor creati dal Ministero, non avrebbe avuto molto successo: ci sono persone per cui è complicato inserirsi adeguatamente nel mercato del lavoro e che hanno sogni apparentemente impossibili. E se, infine, qualcuno avesse sospettato della reale natura di quel giovanotto, non avrebbe chiesto un colloquio ai servizi sociali della zona, potendo avere il vero Padre del ragazzo sempre a portata di colloquio.
Per Cristo, che anche Schweitzer nella sua Diagnosi e valutazione psichiatrica di Gesù riconobbe come un’intelligenza fuori dal normale, non ci fu bisogno di tante delle cose che oggi vengono chiamate scuola. E non perché visse in un’epoca in cui la scuola così com’è strutturata ai giorni nostri non esisteva, ma perché la scuola è un tempo della vita. Tutti vanno a scuola, a qualunque latitudine o longitudine vivano, perché tutti attraversano un tempo in cui si forgia la consapevolezza di sé. Studiare e conoscere non serve a competere con le macchine, che è sempre più chiaro che vinceranno su questo punto, ma a costruire la coscienza di sé, ad approfondire il proprio umano fino al punto di iniziare ad esprimerlo e a giocarlo nella grande storia degli uomini.
Per questo la scuola è rapporto con la realtà: perché possano emergere tutte le domande e le fragilità della persona, domande e fragilità che – se non sono subito ingabbiate da qualche forma di intervento adulto animato dalla paura che i ragazzi possano sentire dolore – diventano poi fondamenta dell’Io, certezza dell’individuo.
Una scuola è di successo non se arriva ai primi posti nelle rilevazioni Invalsi o se scala le posizioni di Eduscopio, ma se chi esce da quella scuola è più solido, più vero, meno arrabbiato. Conoscenze e competenze sono fondamentali, è bene non fraintendere, ma sono funzionali all’edificazione della persona. È meglio che un ragazzo sappia una cosa in meno, ma sappia amarne una di più. È meglio che un professore resti indietro col programma, piuttosto che restare indietro col Tu del giovanotto che ha di fronte. La scuola è rapporto con gli adulti, è quasi l’unico luogo dove gli adulti possano davvero interagire con il disagio, le ferite, la strafottenza dell’adolescenza. O l’istituzione è a servizio di questo rapporto, e tutto diventa funzionale a che un bambino o un giovane si misuri con la realtà attraverso le cose che si imparano, oppure costruiamo luoghi che assomigliano a carceri da cui si vuole solo evadere, tane in cui ci si rifugia riparati dall’ombrello di agevolazioni o buoni sentimenti che non esistono nel mondo reale.
La scuola è una cosa seria. Fare i presidi o gli insegnanti dovrebbe esserlo ancor di più. Nel riconoscimento economico e morale di queste professioni, ma anche nella formazione e nella valutazione umana che dovrebbe essere centrale per l’abilitazione all’insegnamento e di cui, nei tanti concorsi di cui si sente l’eco, non vediamo neppure l’ombra.
Certo, poi Maria e Giuseppe sapevano benissimo che il rapporto con sé, il rapporto con la realtà e il rapporto con l’adulto non esaurivano l’educazione di Gesù. C’era un quarto rapporto, una quarta dimensione, essenziale perché la vita di Cristo fosse scuola. Era il rapporto con Dio, il rapporto col Padre. Ma su questo i genitori di Nazareth erano più oculati di molte famiglie religiose moderne. Sapevano, infatti, che quel rapporto non era affare loro, ma era una roba tra Padre e Figlio, tra loro due. Anzi, tra loro tre.
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