Sevizie a Miami. “Chiedo giustizia”. Alluvione, il papà di…: “Chiedo giustizia”. Omicidio di A.N. Il marito: “Chiedo giustizia”. Sedici anni fa l’omicidio… La mamma: “Chiedo giustizia”.  Eccetera eccetera.  Completare l’elenco è impossibile. La ricerca di “chiedo giustizia” su Google dà più di centomila risultati, 18.500 titoli se si restringe il campo alle sole notizie dell’ultimo mese.  Da ultimo addirittura anche il povero  Denis Shapovalov, bersagliato di brutto sui social per le sue parole sul caso Sinner-doping,  si è sentito in obbligo di assicurare: “Voglio solo giustizia”.



Giustizia o punizione?

Ma quando chiediamo giustizia, sappiamo esattamente cosa chiediamo? Principalmente chiediamo la punizione del colpevole. Una punizione, che vorremmo in genere senza sconti e senza attenuanti. Se non ci sembra abbastanza severa, può scattare l’odio. Com’è successo all’avvocato difensore dell’omicida reo confesso di Giulia Cecchettin, impietosamente massacrato dai social. E tanto di cappello al papà della vittima, Gino, che ha stretto la mano a lui e “non escluso” la possibilità di perdonare, forse, un giorno, l’assassino della figlia.  Ci potrà mai essere giustizia dove c’è odio? Giustizia è “fargliela pagare”? E basta?



Noi come Kant e Hegel

Magari senza saperlo e senza aver studiato, seguiamo d’istinto quello che i gran Soloni del pensiero moderno, Immanuel Kant e Georg Wilhelm Friedrich Hegel, sentenziavano. Per Kant la pena deve essere inflitta come imperativo categorico: inammissibile pensare di cavarne una qualche utilità per il reo, o le vittime o i concittadini. Per Hegel poi il reato è una violenza alla quale si risponde con la violenza, punto. Il nostro Cesare Beccaria se non altro introduceva importanti elementi di tutela, escludendo torture e pene corporali. Perché “non servono”. Non per un’idea umanistica della dignità umana, ma per utilitarismo. Comunque, meglio di niente.



Civiltà giuridica

La nostra civiltà giuridica è andata molto avanti. Già con la Costituzione italiana, art. 27 – “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” – si respira tutt’altra aria. E poi con la promozione della giustizia riparativa (in particolare con la recente legge Cartabia). “un percorso per cui tutte le persone coinvolte in un reato hanno l’opportunità di riunirsi e discutere con chi è stato danneggiato e capire cosa può essere fatto per riparare” (così il criminologo australiano John Braithwaite in un’intervista a Vita).

“Una giustizia giusta – sono parole della costituzionalista Marta Cartabia, già ministro della Giustizia e presidente della Corte costituzionale -, è una giustizia che permette di guardare al futuro, che non si pietrifica su fatti passati che pure sono indelebili. La giustizia giusta è riconciliazione, non vendetta. Perché la giustizia vendicativa – ce lo insegna la tragedia greca, in particolare l’Orestea di Eschilo – distrugge insieme gli individui e la polis, mentre una giustizia riconciliativa realizza l’armonia sociale”.

Attenti alle sirene

Percorsi e strumenti positivi dunque esistono. Occorre la volontà di perseguirli, e – probabilmente – un cambio di mentalità generale.  Un cambio di mentalità è auspicabile e necessario per tutti. Non bastano le buone leggi. Infatti, il  giustizialismo allo stato brado che alligna in noi, se diventa articolo di giornale ispirato al pregiudizio o post sui social ispirato all’odio non è innocuo. Può influenzare, eccome. Avvelenare il clima. Oppure lusingare e attrarre, come sirene. Ha ragione lo scrittore Luca Doninelli quando scrive (sabato, sul Giornale): “Tutti sappiamo che queste sirene finiscono a volte per guidare le azioni della polizia, le indagini dei magistrati, le sentenze dei giudici – non per cattiveria, ma perché abbandonare ogni volta la comfort zone del nostro preconcetto chiede sempre fatica, chiede quell’andare un passo oltre sé stessi che la nostra civiltà ha chiamato etica”.

Santi magistrati e porte sante

Che se poi vogliamo fare un altro passo avanti, dobbiamo convincerci che “non basta la giustizia”.  “La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio”: affermazioni di un magistrato, Rosario Livatino, ucciso dalla mafia e proclamato beato. “La condanna non è l’ultima parola”, ha detto il  cardinale prefetto emerito della Congregazione per l’educazione cattolica, Giuseppe Versaldi, al Convegno dei giuristi cattolici. “Chi ha sbagliato deve avere l’opportunità di redimersi… di tornare a riparare il danno che hanno fatto e nello stesso tempo non essere scartati definitivamente”.

Il Papa compirà un gesto significativo in occasione del Giubileo, aprendo una Porta Santa nel carcere di Rebibbia a Roma. Ma porte sante si aprono così tutti i giorni, in quei luoghi di detenzione: sono i tanti volontari che vanno a “visitare i carcerati”, come si chiama una delle sette opere di misericordia. Cioè a condividere il comune bisogno di salvezza, con tutto quanto ne consegue.

Suor Anna Donzelli

Bisognerebbe ricordarselo anche quando si parla e soprattutto di scrive, per esempio, di suor Anna Donzelli, ai domiciliari con l’accusa di avere veicolato messaggi tra membri della ‘ndrangheta: che l’amore al vero prevalga (anche) sul tritacarne mediatico.

Si deve ammettere che Platone ci aveva proprio preso: “Per adempiere la giustizia è necessario educare alla bellezza di una vita buona”.

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