Nel 2023 i casi di violenza all’interno della scuola sono stati in tutto 36, quest’anno gli episodi denunciati hanno già toccato la ragguardevole cifra di 27. Solo negli ultimi giorni la cronaca ha raccontato di uno studente di 17 anni che a Varese, nell’atrio della scuola, ha estratto un coltello e colpito alla schiena una delle sue insegnanti. Negli stessi giorni il preside di una scuola di Taranto è finito al pronto soccorso dopo essere stato picchiato dal padre di una bambina e, prima di lui, il dirigente scolastico di un istituto del foggiano è stato aggredito dalla mamma di un allievo. Da dove nasce tutta questa spinta alla violenza che anima la società? Qual è la sua radice ultima?

Qualunque spiegazione sociologica o psicologica si perde davanti a pulsioni radicate e misteriose, che s’impossessano e si manifestano anche nelle persone più insospettabili. C’è di più di un semplice disagio o di condizioni socioculturali sfavorevoli. In un passaggio della Bibbia, più precisamente nel libro dei Re, si descrive una condotta che fu la causa della distruzione e dello sterminio della casa di Geroboamo dalla faccia della terra. Alla morte di Salomone il regno fondato da Davide si divise attraverso una serie di eventi drammatici che portarono alla nascita del regno di Giuda a sud e del regno di Israele a nord. Geroboamo, re del nord, temendo che la presenza del tempio a Gerusalemme avrebbe finito per costituire una sorta di progressiva delegittimazione del proprio potere, si adoperò per forgiare due vitelli d’oro da porre sulle alture in modo che i sudditi di Israele trovassero in quelle raffigurazioni le divinità da adorare e smettessero di recarsi a Gerusalemme. Non contento di ciò, il re spezzò il sacerdozio ereditario, tipico della tradizione israelita, e lo sostituì con una mera funzione sociale: chiunque ne avesse fatto richiesta, avrebbe potuto diventare sacerdote.

L’autore biblico definisce l’insieme di questi atti con una parola fondamentale per la teologia ebraica e cristiana: idolatria. Esistenzialmente un idolatra è uno che non si rivolge più a Dio, che non s’aspetta più il bene della vita dall’amore di Dio. E quando non è più Dio il terminale di ogni umana attesa, qualunque cosa il cuore individui come un bene diventa oggetto di una pretesa. Se l’uomo non attende da Dio l’amore, lo pretenderà dall’innamorato o dall’innamorata. Se non è più Dio che dà la giustizia, qualunque forma di relazione sociale sarà intrisa di rivendicazione e risentimento.

La violenza nasce qui, la violenza nasce dall’idolatria. Quando un genitore non aspetta più il bene dei propri figli da un Mistero buono e amico, allora pretende che quel bene arrivi dalla scuola, dall’allenatore di calcio, dalle proprie capacità. Quando non si guarda più verso Dio, si costruiscono vitelli d’oro ovunque, salvo poi lamentarsi che hanno occhi e non guardano, hanno orecchi e non sentono, hanno bocca e non parlano. La violenza sorge dalla delusione che ciascuno ripone negli idoli che si è costruito o che ha individuato. In questo modo l’amore fra due persone è un sottile gioco di violenza, la famiglia è un luogo di violenza, la comunità civile o religiosa è terreno fertile per dinamiche violente.

Ma l’idolatria non è soltanto causa di alcuni comportamenti: essa determina una mentalità. Normalmente quando ci si rivolge ad un bambino, tra le tante considerazioni che si fanno, si sottolinea che è ingenuo perché non guarda le cose con furbizia, perché si fida di tutti. L’adulto, nella vulgata corrente, è colui che ha imparato a non fidarsi, colui che ha imparato che ogni cosa delude, che ogni cosa è menzogna. Trattando la realtà come un idolo, l’uomo coltiva un’ultima sfiducia verso la realtà stessa, verso le persone, verso la storia.

È interessantissimo come questa considerazione esistenziale, che mette in rapporto l’idolatria con la carità, con la perdita di fiducia e di amore verso la realtà, si ribalti nel comando del nuovo testamento: l’amore a Dio e l’amore al prossimo. C’è un legame tra ciò che il nostro cuore desidera, tra l’oggetto del nostro desiderio, e il modo con cui il nostro cuore ama. C’è un legame tra l’orizzonte di senso in cui uno immette se stesso e i rapporti con i propri studenti e il modo con cui dà loro fiducia e stima. Troppe volte gli esseri umani avvertono una solitudine radicale che non è condizione strutturale dell’uomo, ma conseguenza del peccato: siamo soli, non ci fidiamo gli uni degli altri, siamo sempre in guardia, perché abbiamo dimenticato che il bene della vita viene da Dio.

Ricostruire la scuola, come ricostruire la società o la famiglia, oggi significa riannodare il filo che lega il desiderio del cuore al Mistero che può abbracciarlo. Il nostro tempo ci chiede di educare dei figli dicendoci, in ogni modo, che siamo orfani, che nessun Padre è disposto ad adottarci. Se l’adulto non riannoda la relazione con l’Infinito, tutto diventerà spunto per la violenza. Se uno studente a scuola non incontra un padre, tutto diventerà pretesto per far scontare all’adulto di turno ogni solitudine della vita.

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