Se si hanno le risorse aprire un nuovo ospedale è molto facile, piace a chi governa regionalmente (presidenti, assessori), offre l’opportunità di tagliare nastri e fornisce visibilità positiva ai politici di turno. Vivo in una regione dove in questo primo quarto di secolo di nuovi ospedali ne sono stati costruiti tanti e questo esercizio di apertura è avvenuto quindi molte volte con il generale apprezzamento (salvo i soliti protestanti) dei territori interessati.
Al contrario, risulta molto difficile (se non impossibile) chiudere qualche struttura di ricovero, e non tanto perché in genere è complicato pensare al riutilizzo delle strutture e dei sedimi che verrebbero dismessi (e che rischiano di diventare vuote cattedrali del deserto in disuso), ma soprattutto perché gli ospedali, la cui vita è necessariamente piuttosto lunga, creano un rapporto particolare col territorio e con le popolazioni che vi abitano, e nasce una speciale affezione al punto che risulta difficile guardare ai sedimi ospedalieri senza la presenza delle strutture di ricovero.
Ho personalmente partecipato alcuni anni fa a un esercizio (serio e non virtuale) di programmazione sanitaria finalizzato a identificare un certo numero di ospedali per i quali sarebbe stato preferibile proporre la chiusura e ho dovuto sperimentare, nonostante le forti ragioni alla base della proposta di chiusura, le reticenze degli stakeholders e delle popolazioni locali, al punto che nessuno degli ospedali individuati per la chiusura è stato poi dismesso negli anni successivi e ancora oggi sono lì a svolgere il loro compito e a cercare di raggiungere gli obiettivi che vengono loro assegnati.
I tempi, però, cambiano, le esigenze e i bisogni sanitari si modificano, nascono esigenze tecniche e tecnologiche differenti e, al di là del valore storico che le strutture possono avere, anche per gli ospedali viene il momento di chiudere o di cambiare pelle e funzione. Fin qui è il naturale evolversi di tutti i Paesi e, a parte le ovvie tensioni che sempre si generano in questi casi, ci sarebbe poco da dire.
In questo percorso si presenta però un problema nuovo. Quali obiettivi dobbiamo assegnare oggi a un ospedale? È sufficiente osservare che eroghi le prestazioni sanitarie per cui è stato progettato? La letteratura scientifica, con sempre maggiore frequenza ed estensione di casistica (in termini di patologie, interventi, ecc.), ci dimostra l’esistenza di uno stretto legame tra il volume di attività erogate e il successivo esito delle cure, con l’indicazione che (specificamente per patologia, per intervento, ecc.) esiste una soglia (o un range) di attività al di sotto della quale aumenta il rischio per il paziente dell’insorgenza di effetti avversi.
E non si tratta solo di speculazione o discussione scientifica, perché il problema si è già trasformato in azione: valga per tutti l’esempio dei punti nascita, dove anche nel nostro Paese vi è l’indicazione (salvo eccezioni ovviamente) di chiudere i punti nascita che effettuano meno di 500 parti all’anno in quanto al di sotto di questa attività aumenta per le partorienti il rischio di esiti avversi: e l’indicazione ha già trovato pratica applicazione in diverse regioni, con il classico corredo di proteste e di recriminazioni.
Non basta quindi erogare prestazioni, ma ci si deve interrogare anche sugli esiti delle attività erogate. A questo proposito da diversi anni è attivo un Piano nazionale esiti (Pne) gestito da Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) che produce periodicamente i risultati di esito di molte (anche se non tutte le) attività erogate dagli ospedali. Questi risultati vengono usualmente letti come se fossero delle classifiche per andare alla ricerca degli ospedali migliori, ma in questo modo, a parte incensare qualcuno o appendersi addosso qualche coccarda, si perde il grande valore informativo della valutazione di esito.
Facciamo un esempio. Prendiamo la frattura del collo del femore in pazienti con più di 65 anni: le indicazioni (DM 70/2015) suggeriscono che un intervento tempestivo debba avvenire entro 48 ore e che un ospedale adeguato (accettabile) dovrebbe effettuare il 60% degli interventi in maniera tempestiva (cioè entro 48 ore). Cosa dicono i risultati del Pne? L’ultima valutazione riguarda i ricoveri del 2022 e ci dice che solo 5 regioni rispettano la soglia del 60%, mentre tutte le altre stanno al di sotto, con alcune che arrivano al 30% o addirittura al 20% (e stiamo parlando di medie regionali e non di singole strutture). Nel caso ne dovessi avere bisogno non sarei certo contento di essere ricoverato in un ospedale che avesse queste basse performance.
La frattura del collo del femore è solo un esempio, ma il Pne considera nella sua valutazione alcune centinaia di indicatori e per ciascuno di essi si può ripetere il ragionamento che si è fatto per il femore perché tutti gli indicatori mostrano un’elevata variabilità geografica (cioè tra strutture di ricovero).
E allora che fare? Posto che ovviamente non si può andare tutti nelle strutture che stanno al top della valutazione, si possono prendere iniziative a diversi livelli, come ad esempio:
– Innanzitutto la comunicazione. I risultati della valutazione vanno adeguatamente comunicati, alle strutture, agli operatori, ai cittadini, perché è noto che l’informazione produce di per sé l’innesco di un processo di miglioramento (e l’esempio della frattura del collo del femore dice proprio del miglioramento che è avvenuto rispetto agli anni in cui è iniziato il Pne per il solo effetto della comunicazione dei risultati).
– Poi l’organizzazione. Rivedere i processi per evidenziare gli snodi all’origine delle problematiche legate a un esito insoddisfacente (percorsi di audit, discussioni di gruppo, visita di strutture, ecc.), compresa l’eventuale necessità di percorsi di formazione, e l’individuazione degli interventi di miglioramento da adottare.
– Poi la verifica. Valutare sul campo, dopo gli opportuni interventi di modifica adottati, il permanere di risultati di esito insoddisfacenti ovvero il loro (parziale o totale) superamento.
A questo punto, però, visto il ripetersi per alcune (ma forse bisognerebbe dire molte) strutture di performance (esiti) insoddisfacenti è il caso di perseverare nell’errore o non vale forse la pena di prendere il toro per le corna e orientarsi verso interventi più decisi? I provvedimenti drastici (limitazione della attività, rinuncia a determinati tipi di ricovero, revisione dell’accreditamento, fino alla chiusura del reparto o addirittura della struttura) sono sempre problematici, ma non deve forse prevalere il diritto del cittadino di ricevere cure adeguate?
Certo, ci vuole sensibilità, attenzione, prudenza, bisturi più che mannaie, ma come cittadini possiamo ancora accettare strutture che perseverano nel presentare plurimi indicatori di esito del tutto insoddisfacenti?
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