Sabato scorso al Forex – al suo debutto davanti alla comunità bancaria nazionale – il governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta ha delineato una prospettiva molto leggibile degli scenari macroeconomici, corredata da orientamenti coerenti di politica economica.
Per Panetta – oggi membro del Consiglio generale della Bce dopo aver fatto parte per cinque anni dell’esecutivo guidato a Francoforte da Christine Lagarde – è il momento di concretizzare gli sforzi di “recovery” in Europa: già impostati e avviati durante l’emergenza pandemia (su prima spinta di Mario Draghi) e divenuti ancora più significativi sul piano strategico nel dipanarsi della crisi geopolitica. Per il banchiere centrale italiano – fra i più “senior” a livello dell’Eurozona – il 2024 dovrebbe essere tassativamente un anno di ripresa: prima ancora nei diversi impegni di “policy” che nell’attesa di cifre “progressive, in nero, non più zero-virgola” per Pil e occupazione.
La sua premessa politico-economica, in ogni caso, è esplicita in entrambe le raccomandazioni formulate a Genova: cessare la politica monetaria restrittiva degli ultimi due anni e avviare quanto prima il taglio dei tassi d’interesse; ed esplorare la possibilità di aumentare salari e stipendi. La prima freccia punta sulla ripresa degli investimenti da parte delle imprese (e degli Stati e sovra-Stati come l’Ue); la seconda (più classicamente keynesiana) sulla ripartenza della domanda di beni e servizi da parte delle famiglie, oltreché di case d’abitazione. Nel Panetta-pensiero – non nuovo, già espresso anche dall’Eurotower – è dunque auspicabile tornare a schiacciare al più presto tutti gli acceleratori a disposizione da parte dei diversi “policy-maker”. Tenendo presente anche la necessità di vincere nelle propensioni all’investimento e al consumo il pesante effetto-depauperamento già prodotto dall’inflazione su redditi disponibili e patrimoni di centinaia di milioni di europei.
È evidente che lo scenario è quello di un’economia europea definitivamente “disinflazionata”: sia sul versante energetico (critico dopo lo scoppio della guerra russo-ucraina), sia su quello delle catene di approvvigionamento globali, che già in precedenza avevano attizzato l’inflazione, quando il Covid ha alzato muri sulle rotte del commercio internazionale.
È però altrettanto evidente come lo scenario geopolitico resti non congruente, anzi: sia divenuto proprio nelle ultime settimane più instabile e preoccupante (basti pensare all’inatteso rigurgito inflazionistico negli Usa). Se la “febbre” del gas sembra essersi strutturalmente abbassata, l’escalation conflittuale in Medio Oriente ha invece rinfocolato il prezzo del petrolio mentre l’aggressività degli Houthi sul traffico navale nel Mar Rosso ha creato nuovi impatti sulla cruciale connessione di Suez. Lo “scenario virtuoso” disegnato da Panetta – anche in chiave di moral suasion alla governance Ue che sarà partorita dell’euro-voto di giugno – appare quindi ancora in lotta con una dura realtà fattuale.
Non è d’altronde sfuggito a nessuno che se il governatore di Bankitalia guarda apertamente a un “dopo-guerra” (augurandoselo per gli evidenti esiti benefici a tutto tondo), altri – in Europa – si muovono in direzione di uno scenario di “guerra” (o eufemisticamente di “perma-crisi”). È il caso del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ex premier della Norvegia, Paese non membro dell’Ue. Stoltenberg – in proroga da più di due anni ai vertici dell’Alleanza Atlantica – ha esplicitamente prospettato “un decennio di confronto con la Russia”. In concreto, ha proiettato un ben diverso percorso di “ripresa”: trainato dalla spesa militare, attraverso un suo drastico aumento e un dirottamento dirigistico di risorse finanziarie pubbliche (fiscali) e private (intermediazione di risparmi e capitali).
È stata, del resto, la “politica economica” che negli Stati Uniti ha coronato nel 1941-45 il New Deal del decennio precedente, antidoto alla Grande Depressione. Robert Oppenheimer (il cui biopic è candidato a 13 Oscar) poté spendere 26 miliardi di dollari – a prezzi odierni – per produrre la prima bomba atomica, nella transizione tecnologica di maggior livello nel ventesimo secolo. E alla fine fu solo una goccia nell’intero “investimento” di Washington nella Seconda guerra mondiale, calcolato in oltre 5mila miliardi di dollari a prezzi attuali. Il mondo in cui tuttora viviamo ha avuto quelle radici politico-economiche: ma al prezzo di 50 milioni di morti direttamente mietuti in sei anni di guerra. Compresi i sei milioni di vittime della Shoah.
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