“E allora senti un po’, visto che parli così… Mi te disi propi un bel nient! Hai capito? Facia de merda!”. A prima vista non sembrerebbe proprio, ma c’è un seme di Alexej Navalny in ciascuno di noi. Noi, dico, intesi come tanti Giovanni Busacca (Gassman), sodale in armi e paraculaggine di Oreste Jacovacci (Sordi) ne La grande guerra di Mario Monicelli (1958). I due sono codardi e vigliacchi, mica eroi, prima regola salvare la ghirba, che adesso la chiamano comfort zone, perché non siamo più sangue e melma sotto le granate nemiche come nel quindici-diciotto. Ma c’è un limite ultimo anche alla paraculaggine, e quando l’ufficiale austriaco sputa totale disprezzo sull’umano profondo tuo e della tua gente (“Gli italiani conoscono un solo fegato, quello con le cipolle che fanno a Venezia”), allora ti vien su dai precordi il soprassalto della dignità, riflesso inequivoco dell’anima irriducibile. A costo della fucilazione.
La persona irriducibile
Se non fosse così, non saremmo qui ad ammirarlo, Alexej Navalny; forse lo liquideremmo in fretta come un tragico eroe biondo inarrivabile, o come un pazzoide sconsiderato dalle idee neanche tanto per la quale, visti certi suoi trascorsi nazional-populisti, politically molto ma molto scorrect, per cui addirittura Amnesty International non gli ha rilasciato a suo tempo il patentino di perseguitato per motivi di coscienza.
Putin di riffa o di raffa si è levato di torno tutti i possibili competitor alle imminenti elezioni, che poi competitor si fa per dire, gente che al massimo avrebbe potuto rosicchiargli qualche punto percentuale di un plebiscito preordinato. Ma non ha annientato neanche con la morte la spina più acuta anche se apparentemente più inerme: il documentarsi della persona nella sua irriducibilità e libertà di fronte al Potere. Anche la politica, la politica vera, dovunque, nasce dalla mossa di persone libere che si mettono in gioco per un ideale. Non può che nascere, o rinascere, così.
La paura e la moda
Ai suoi sostenitori, Navalny diceva spesso: “Non dovete avere paura. Questo è il nostro Paese e non ne abbiamo un altro”. In Russia ci sono sempre stati individui che la pensavano diversamente dal potere, zarista, bolscevico o anche, ora, putiniano. Ma la differenza l’hanno fatta quelli che, come si usa dire da quelle parti, “sono usciti dalle cucine” e hanno avuto il coraggio di battersi per il rispetto dei diritti umani. Il coraggio, appunto. Attraverso forse la continuità dei servizi di polizia politica e di controllo capillare della realtà sociale (Putin viene dal Kgb), il potere nazional-capitalistico degli oligarchi ha ricostituito il controllo capillare di ciò che si muove nella società sulla base del principio – lo stesso del comunismo – che chi non è ciecamente conforme alla linea ufficiale è un nemico.
Anche in Occidente non è sempre facile non conformarsi agli assiomi del Potere, che una volta si chiamava “mentalità dominante” o più semplicemente ancora “moda”, e che adesso tocca chiamare – Dio stramaledica gli italiani che esagerano con l’inglese – mainstream. Negli ambiti più “avanzati” del progressismo nordamericano i disallineati rispetto alla cultura woke, cancel culture, LGBT… eccetera, sono spesso i nuovi discriminati.
Se la propria consistenza è delegata al Potere, finisce così. Si ha paura a sconfinare. Occorre chiedersi, ancora una volta, quale presenza, quale compagnia, sostiene la persona mostrandosi più forte della paura. L’individualismo è la cifra dell’impotenza.
Dai social alla condivisione
Una terza cosa, fra le moltissime, che colpisce nella testimonianza di Navalny, è la sua scelta di tornare in patria, dopo le cure in Germania che l’hanno salvato dall’avvelenamento, sapendo che sarebbero stati, come minimo, dolori. Avrebbe potuto fare il dissidente nobile dall’estero, somministrando pensieri, giudizi e suggerimenti “da remoto”, esperto nell’uso dei social com’era. Navalny ha scelto invece di passare dalla “rete” alla vita reale, essendo questa lo spazio di una lotta politica e di una rivoluzione pacifica in cui gli era chiaro – come ha scritto Anna Zafesova sulla Stampa di ieri – versare “l’impegno, le mani, la voce, il corpo, in una scommessa che può anche rivelarsi mortale, ma che premia solo chi non ha paura di farlo”. Non stare al balcone o nelle case ma esporsi nella strada e nella piazza (papa Francesco e Giorgio Gaber). Mettersi insieme, noi che possiamo farlo liberamente e senza pericolo, per costruire dal basso nella società e favorire una politica che non costringa a un signorsì o un signornò, ma che ascolti, coinvolga e favorisca convergenze e collaborazioni. Si chiama sussidiarietà, ed è quello che fa la differenza. Il resto è disco dance.
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