Sul palco c’è Alcide De Gasperi: lo interpreta un grande attore di scuola ronconiana, Paolo Pierobon. In platea centinaia di persone, molti giovani, tutti attentissimi per l’ora e mezza di spettacolo. L’idea di portare in scena il grande leader politico e fondatore della Democrazia Cristiana è stata di Angela Dematté, tra le migliori drammaturghe italiane, trentina come lui. Siamo in un momento di smarrimento sul senso del fare politica, con la scadenza delle elezioni europee alle porte. Per questo si sente il bisogno di ritrovarsi davanti un personaggio come De Gasperi in quella forma viva e aperta che solo il teatro sa proporre. Non è un guardare indietro, ma un desiderio di toccare una dimensione diversa della politica, fatta di grandi sogni, di spirito di servizio e anche di drammatiche sfide. Così in scena lo ascoltiamo confidarsi con la figlia Romana, oppure rivelare la consuetudine, così intima, di scrivere nei momenti di incertezza biglietti a Dio dicendo “Aiutami, cosa devo fare”. Val davvero la pena misurarsi con il De Gasperi che il teatro così opportunamente ci restituisce.
Ecco, il teatro. È sorprendente assistere a questo bisogno di teatro e a questa vitalità di proposte, che sempre più spesso portano sul palcoscenico conflitti, aspettative, paure di oggi. Il Covid sembrava aver tramortito un settore che non poteva certo vivere né di piattaforme né tantomeno di collegamenti virtuali. Il teatro chiede corpi presenti, sia sulla scena che in platea. È esperienza antitetica all’egemonia del virtuale; un rito antico che mantiene il suo presidio necessario nel mezzo di una società narcotizzata dai social. Scriveva Erodoto che il re persiano Ciro aveva mandato dei suoi emissari per capire come fossero fatte le città greche che osavano contrastare la sua egemonia. La risposta degli emissari lo aveva tranquillizzato: erano città strane con un buco in mezzo dove la gente si ritrovava. Quel buco era il teatro, cuore di una civiltà che metteva al centro il confronto e la rappresentazioni delle grandi domande sul destino.
Quel “buco” nell’organizzazione delle città di oggi non sta più certamente al centro, anzi è del tutto marginale. Eppure continua ostinatamente ad essere organismo vivo capace di rinnovarsi e di mobilitare sensibilità liberate dai soliti conformismi. E il pubblico risponde, riempiendo le sale come per un bisogno di riscossa rispetto anche ai tanti surrogati che gli sono stati propinati dai modelli del nuovo consumo culturale. Come ha scritto nel suo nuovo libro Byung-Chul Han, il teatro, come la narrazione, ci offre il dono di restare in ascolto.
Si ascolta un De Gasperi che riprende corpo e voce. Si ascoltano i detenuti della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo che in una grande sala gremita sino all’ultimo strapuntino, raccontano come attraverso il teatro si possa ritrovare lo sguardo puro dell’innocenza rappresentato dal bambino, e stabilire una diversa relazione col mondo. Si ascoltano tre bravissime attrici di Kiev, Natalia e Julia Mykhalchuk, Anfisa Lazebna, che raccontano l’impossibilità per loro di rappresentare un capolavoro tanto amato come le Tre sorelle di Cechov: impossibile dire la battuta più celebre, “A Mosca, a Mosca!”. Si ascolta un giovane e bravissimo attore come Francesco Alberici (premio Ubu 2021) portare al Piccolo Teatro con dolore e ironia le derive del lavoro nel capitalismo avanzato. Si ascolteranno i pazienti di una azienda sanitaria di Brescia rappresentare e attualizzare una pièce di Giovanni Testori, violenta parodia della guerra (Macbellum a Milano, alla Sala degli Angeli il 9 marzo). E si potranno ascoltare quel centinaio di ragazze e ragazzi napoletani che sotto la guida di Marco Martinelli al Teatro Grande di Pompei, e poi per l’Italia, portano in scena e attualizzano Aristofane.
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