Che gli amici non fossero delle cime in materia di comprensione, Cristo lo sapeva: se li era scelti Lui, uno ad uno, singolarmente. Come fossero il suo più bel vestito su misura. Ragione per cui quando qualsiasi altro avrebbe perduto le staffe, Lui sapeva mantenere la pazienza un istante oltre la media generale. Era certo, Lui, che anche in un fazzoletto (quelli da soffiarsi il naso) potesse starci un firmamento: bastava saperlo vedere. I “suoi” Dodici, invece, avevano ben più del firmamento con loro: avendo Cristo, avevano il mondo intero. Però “chi ha il pane non ha i denti, chi ha i denti non ha il pane” come si dice: non riuscivano a vedere il benché minimo fazzoletto di Cielo dentro le giornate. Per poi finire a confondere i limiti del loro campo visivo coi confini del mondo.
Fu per questo, e per molto altro (a noi, magari, non ancora noto) che, quel giorno, Cristo si mise in testa di prenderli per mano e di accompagnarli “su un alto mondo, in disparte loro soli“. Li spinse in cima al Tabor, poco più che una collina, molto più che un pianoro: “Non potete scoprire nuovi oceani, amici miei, se non avrete il coraggio di allontanarvi un pochino dalla spiaggia” disse loro. Glielo disse dopo aver fatto la diagnosi alla loro cecità: siccome non si fidavano granché delle promesse del Cristo – va detto che Satana stava facendo lavori certosini di screditamento del Cristo – vivisezionavano ogni singola parola, facendo l’autopsia ad ogni evento. Mettevano i “puntini sulle i”. Così facendo, avevano perso la visione d’insieme.
Nacque dentro loro una baraonda così grande da sfiorare la depressione: c’è una cosa ch’è peggio del non avere la vista, è non avere una visione. Per questo pensò bene di farli salire un pochino di quota: per dare loro la possibilità, allontanandosi un po’ dal tran-tran di tutti i giorni, di poter vedere le cose da un altro punto di vista. Con uno sguardo diverso. Tanto che, giunti in cima, fiorirono loro gli occhi: “Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così” (cfr Mc 9,2-10).
Potessimo far recapitare un messaggio al capoclasse Pietro: “Egregio pescatore, avremmo voluto che i tuoi occhi potessero vedersi mentre guardavano il tuo Dio”. Ciò che fece loro il Maestro fu di dare la possibilità di vedere dall’alto tutto quello che dal basso poteva sembrare loro contraddittorio, balordo, rischioso. In sua presenza riuscirono a fare quello che, da soli, non erano affatto capaci di fare: guardare l’insieme, la globalità e non accanirsi sui piccoli particolari. Allontanarono un po’ la realtà – come si allontana dal viso, leggermente, una foto per vederla meglio – e iniziarono a vedere le cose in maniera simbolica, quasi poetica. Giù, invece, continuavano ad osservare il mondo in maniera diabolica: soffermandosi sulle bazzecole, guardando il pelo nell’uovo: “Strani questi italiani; sono così pignoli che in ogni problema cercano il pelo nell’uovo. Quando l’hanno trovato, gettano l’uovo e mangiano il pelo” (B. Croce). Così era anche dei cristiani. Soprattutto dei primi, quelli della stagione sacra del Cristo: le fondamenta della nostra fede.
Su quella cima gli occhi dei tre – “Pietro, Giacomo e Giovanni” – brillarono d’una luce inconsueta. Ciò che, all’improvviso, fu loro chiaro era ciò che il Cristo aveva chiesto loro da subito, appena incontrati: si raccomandò che, cammino facendo, non perdessero di vista la visione d’insieme delle cose. Loro, invece, un colpo a fregarli era l’entusiasmo, un altro una sorta di depressione. Quando scesero – Cristo li spinse giù controvoglia (“Facciamo (qui) tre capanne“!) – si accorsero, comunque, che era ormai entrata in circolo nei loro occhi una nuova prospettiva: “Si può benissimo, quando il tempo è bello, intravedere Dio sul volto del primo venuto” (C. Bobin). Satana, nella valle, li riaccolse a braccia aperte: “Dal divano, amici, la vista è più spettacolare che dal Tabor. Credetemi!” continuò dire. Provando un certo diletto nel dirlo, confondendo di nuovo i cuori.
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