“Prof, oggi non sono uscito dalla classe”. “Come mai?” gli chiedo. “Girava bene, girava bene”. Poche battute, appena finisce l’ora e inizia l’intervallo, per dire da cosa è stato conquistato lui che, irrequieto e con un’intelligenza rara, non riesce a stare fermo, non resiste “al suo posto”. Avevo proposto alla classe l’inizio del film Blood father (del 2016, con protagonista Mel Gibson). Racconta la storia di un padre, ex carcerato in libertà vigilata, la cui figlia, allontanatasi da casa anni prima, torna a cercarlo per essersi infilata in una situazione più grande di lei. Il film non dà tregua, in un progressivo recupero del rapporto tra padre e figlia.
Resto colpito da come alcuni lo guardano e dallo studente che, per la prima volta, non esce dalla classe per fare il suo giro di “sfogo”. Il film l’avevo conosciuto grazie a un amico che me lo segnalò qualche anno fa. Tornato da scuola gli scrivo per raccontare quello che era successo in classe. Lui mi risponde: “È il sacrificio. I giovani cercano una ragione per vivere questa vita”.
Sono considerazioni che ci facciamo spesso, ma altra cosa è vederle in atto davanti ai tuoi occhi. Come è accaduto anche al Festival di Sanremo 2024. La canzone che ha vinto, La noia, a un certo punto dice così: “Muoio senza morire, in questi giorni usati. Vivo senza soffrire, non c’è croce più grande”. Il rischio che il tempo passi senza una reale passione per la propria vita e per la realtà, è ciò che più temiamo. Come tutte le cose di cui abbiamo paura, però, talvolta cerchiamo di tamponarla con dei diversivi, ma non reggono. L’uomo è fatto perché i diversivi non reggano.
Il tempo di quaresima si presenta, così, come l’occasione favorevole per guardare in faccia i nostri “giorni usati” con la curiosità di vedere cosa permetterà che ritornino nuovi. Nella Bibbia, l’autore del Salmo 56 si rivolge a Dio dicendo: “I passi del mio vagare tu li hai contati”. Riconosce la Sua presenza persino in quei sentieri che ci vedono distratti e vagabondi, senza meta. Solo la certezza di una misericordia che arriva fin lì può impedirci di “morire senza morire”.
La parola “sacrificio” assume così tutta la portata della sua realizzazione storica sul Calvario. Come scrisse don Giussani: “Il sacrificio è Cristo che patisce e muore. Egli è il significato della nostra vita, perciò deve incidere nel presente, perché ciò che non è amato nel presente non è amato, e ciò che non è affermato nel presente non è affermato”. Più Cristo si avvicina al momento della crocifissione e più appare chiara la potenza e l’unicità del suo rapporto con il Padre.
Ritorniamo così a Blood father. La complicità non soddisfa, l’amicizia non basta, occorre una paternità: un luogo in cui il cuore sia a casa, senza bisogno di “sfoghi” altrove, in cui dover sempre dimostrare di essere all’altezza della situazione. Nemmeno al Figlio di Dio il Padre ha risparmiato questa scoperta, perché potesse diventare anche nostra, carne della nostra carne.
Quando ci imbattiamo in persone che vivono così, che hanno evidentemente ritrovato la natura del loro vero io, come ha richiamato il Papa nell’omelia per la s. Messa delle ceneri di quest’anno, allora scopriamo di non essere da soli e i giorni tornano nuovi.
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