Dunya non ha ancora diciott’anni. Nata egiziana, vive in Italia da quando di anni ne aveva due. Il foulard di un bel rosa non aggressivo. Noi di Vincenzina davanti la fabbrica, Vincenzina il foulard non si mette più (Jannacci-Viola) non diciamo velo. Dunya deve fare un tema. Sulle cicatrici. Lasciamo stare le cicatrici da ferita fisica, ovviamente. Trattasi di cicatrici dell’anima. Siamo a Portofranco, Milano, luogo di volontariato deputato ad aiutare i ragazzi nello studio. Qualche centinaio metri dal carcere di San Vittore, dove di cicatrici… hai voglia. Cicatrici. Ferite.

L’augurio di Jannacci

“Vi auguro di avere sempre una ferita e una carezza”. Le parole di Enzo Jannacci, già malato e sofferente, dette qui, in queste stesse aule ad altri ragazzi tipo questi, la volta che venne a confidare, testimoniare, cantare. “In questo posto – mi ricordo come fosse oggi, esordì quella volta – adombrato di luci, di gioventù e di mistero”.

Dunya non c’è neanche bisogno di tirarle fuori gli spunti e le idee con il cavatappi, è sensibile e pensosa. Ci appuntiamo pensieri man mano che le vengono, con aiuto minimo. “Tutti abbiamo cicatrici. Provocano dolore. Influenzano la vita e il suo futuro”.

Parla in generale. Deve parlare in generale, la prof ha dato disposizione di non esporre casi personali. E si capisce. Ciò non toglie che Dunya pensosa e sensibile parli di realtà, non di fantasticherie. Prosegue: “Le ferite possono essere inferte da persone care, oppure dai genitori, o dai social“. Si riferisce, nell’ordine: 1) all’essere tradita dalla persona amata; 2) all’essere sgridati per un insuccesso nonostante il tuo impegno e la tua buona fede; 3) all’essere maltrattata o ridotta a colpi di like e dislike, fino al bullismo. Nel primo caso, aggiunge, succede che ti colpevolizzi, sospetti una tua inadeguatezza. Nel secondo senti incompreso il tuo vissuto. Nel terzo sei preda della frustrazione”. “Le cicatrici rimangono, il dolore non passa del tutto”. Perché? “Perché sei stato ferito nel tuo stesso essere”, nel tuo io profondo. “Ti invade allora l’incertezza rispetto al tuo futuro”.

C’è qualcosa che può lenire le ferite, aiutare a guarire? “Stare con me stessa. Trovare un riparo. Guadagnare la libertà interiore”. Poi pensa ai genitori: “Se anche mi fanno un rimprovero ingiusto, so che mi vogliono bene”. Ecco dunque l’ultimo appunto per il tema: “Sapersi amati”.

La parabola di Rimbaud

Dunya fa i conti con la ferita e in qualche modo percepisce la carezza. Stringendo “La rugosa realtà”: ricordo che un allora giovanissimo Giuseppe Frangi mi suggerì di mettere questa espressione di Arthur Rimbaud a esergo di una certa pubblicazione. Rimbaud ne scrisse nel suo Le bateau ivre quando aveva circa l’età di Dunya. “Feste, trionfi, drammi […] Poteri sovrumani ho creduto di ottenere […] mi ritrovo steso a terra, in cerca di un dovere, intento a stringere la rugosa realtà. […] Insomma, chiederò perdono per essermi nutrito di menzogna. Su! andiamo. Però neppure una mano amica! soccorso, dove trovarlo?”.

Ferragni la poverina

E così sull’onda della parabola di Rimbaud siamo finiti con Dunya a parlare della Ferragni, chi l’avrebbe mai detto che mi sarebbe interessata. Perché la sua realtà diffusa a manetta via social – dai bambini esibiti alla casa da sogno, al Fedez che gli scappa la cacca, al pandoro benefico (?) con la polverina rosa, alla felpa del tante scuse, alla (non) intervista di sabato sul Corriere a quel che sarà da Fazio – è una realtà non-rugosa. Ostentazione del successo come da tutti desiderabile come leva di persuasione. Proprio l’era della post-verità, nel senso che nessuno sa più se è la realtà che stai rappresentando, o se la rappresentazione è divenuta la sfera della sua realtà. Non lo sa, oso credere, neanche la Poverina – nello stesso preciso senso in cui Manzoni usa questa parola per definire la monaca di Monza – che ora cerca di parare i guai in cui è incorsa con lo stesso metodo della post-verità.

Ma invece fare davvero i conti con la realtà rugosa, viverla intensamente, cioè cercandone il senso, è l’unica via di possibile redenzione.

Le braccia aperte della Goggia

Un caro amico giornalista di lungo corso mi ha segnalato una breve e assai bella esternazione della Sofia Goggia, favolosa sciatrice bergamasca che si spacca le gambe e non vuole cedere come e forse più del mitico indomito Gigi Riva Rombo di Tuono. Ha postato la Goggia: “Se questo è il piano che Dio ha riservato per me, altro non posso fare che spalancare le braccia, accoglierlo ed accettarlo. Questa frase non è mia ma di Elena Fanchini. Mi sono ispirata a lei, l’ho fatta mia”. Elena è un’altra sciatrice bergamasca, di Lovere, morta a soli 38 anni, l’anno scorso, per un tumore. “Mio padre mi ha scritto che questo mio dolore non sarà vano, ma, anche se il tempo poi mi dirà se aveva ragione, attualmente stento a crederci. Non è un osso che si rompe… quello che fa davvero male è quella lacerazione che sento dentro al petto, che solo io posso avvertire radicato nel mio profondo”.

Sofia Goggia come Dunya. Vivere intensamente la realtà rugosa non fa distinzione fra comuni immigrati e campioni di successo. è sempre un dramma – un dramma della libertà -, non una fiaba che alla fine vissero tutti felici e contenti in automatico.

Di aiuto è guardare i santi. Ce ne sono tanti, alcuni famosi e financo, come dire?, prevedibili, altri no: quelli della porta accanto. Che magari commuovono di più. Da vivi, grazie a Dio.

Puta caso, il Griso.

Eh, il Griso è sempre il Griso

Per noi. Precisamente come il treno è sempre il treno per Il ragazzo di campagnaSarebbe – è – Guido, ma per gli amici di mezzo secolo e passa, è come detto sempiternamente il Griso. In ottima forma, fino a due mesi fa – compatibilmente con gli ottanta che lo marcano stretto in attesa; poi un’emorragia cerebrale l’ha portato a un pelo dal coma. A giorni, se Dio vuole, verrà fuori dall’ospedale. Provato, eh, dalla rugosissima realtà, mica bruscolini. Ma più forte, nell’anima, e più Griso di prima. Anche se la riabilitazione non è affatto finita.

Ieri si radunavano i suoi amici del gruppo di Fraternità di CL. Sentite cosa ha detto loro in un vocale su whatsapp: “Mi unisco a questo nostro evento per condividere con voi questo momento importante di amicizia e di fede. Io sono ormai giunto all’epilogo di questa brutta avventura, anche se ritengo non si debba chiamare brutta avventura, ma in ogni caso un’occasione di crescita della mia  vita. Con l’aiuto del Signore posso dire di essere stato non dico quasi miracolato ma raggiunto sicuramente da una grande occasione dentro un evento importante che sicuramente ha segnato il cammino di questi ultimi anni. Ciononostante nello spirito non è cambiato niente perché la fede nel Signore è sempre presente e anche la vostra amicizia e la vostra compagnia…  Voglio ringraziare tutti per il sostegno nella pregherà che mi avete dato, e che avete dato a mia moglie. Arrivederci a casa al più presto”.

Ecco. Arrivederci a Dunya, a Sofia. E, niente braccino corto, anche a Chiara.

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