Due anni fa mi trovavo nella piccola cittadina di Przemyśl, al confine tra Ucraina e Polonia. Centinaia, migliaia di donne arrivavano alla stazione dei treni. Marianna aveva lasciato il marito e piangeva. Aveva camminato quasi un giorno intero per sfuggire alle bombe. La stazione, le scuole, i centri sportivi comunali erano pieni di famiglie che erano arrivate con tutto quello che avevano addosso. Marianna pensava che la guerra sarebbe finita presto. Pensavamo tutti che la guerra non sarebbe durata a lungo. Sono già passati due inverni, sono più di sei milioni le “marianne” distribuite nel mondo. La guerra non è finita e non sembra che finirà presto.
Mentre le donne lasciavano l’Ucraina, a Przemyśl arrivavano uomini ucraini provenienti dalla Polonia e dalla Germania per combattere per la libertà del loro Paese. Adesso non è così facile reclutare soldati. In questi due anni, nonostante sia apparsa la logica “stanchezza della guerra”, il fattore umano continua a essere determinante.
Gli ucraini hanno risposto all’invasione con un desiderio di giustizia che ha sorpreso tutti noi. Dopo aver sofferto in questo periodo la brutalità della guerra in molte delle sue forme (ci sono più di sei milioni di profughi) non sono disposti ad arrendersi. Molti pensano che questa resistenza sia una forma di superbia, una mancanza di realismo, che danneggia loro e tutti. Quale può essere il prezzo della pace? È la domanda che tutti noi ci facciamo. Sappiamo che la vittoria dell’una o dell’altra parte non sarà rapida. La controffensiva dell’estate scorsa non ha raggiunto i suoi obiettivi. E in questo momento il fronte è praticamente paralizzato. Alcuni descrivono le truppe ucraine come “stanche, a corto di munizioni e in inferiorità numerica”. Il sistema delle sanzioni economiche presenta molti buchi, Putin è riuscito ad aggirarlo. La Russia ha più potenza di fuoco. Ma non sappiamo quale sia il morale dei suoi soldati. E da alcuni mesi i russi subiscono attacchi sul proprio territorio e i costi indiretti del conflitto hanno causato numerosi problemi nei servizi pubblici, rendendo loro la vita più difficile.
Un sondaggio di pochi giorni fa ha indicato che solo il 10% degli europei ritiene possibile che l’Ucraina vinca la guerra. Probabilmente l’immagine di cosa significhi “vincere” ha poco a che fare con la realtà. L’opinione pubblica è pessimista. Ma, contrariamente a quanto si poteva prevedere, l’Unione europea ha mantenuto il suo sostegno. Adesso quello che bisogna mantenere è quello degli Stati Uniti, che è il sostegno decisivo. Se il Congresso non approvasse il pacchetto da 60 miliardi di dollari previsto per i prossimi mesi, l’Ucraina rimarrebbe senza difesa aerea e artiglieria. Una piccola minoranza di blocco può impedire che gli aiuti vadano avanti. Ed è facile immaginare cosa potrebbe accadere se Trump vincesse le elezioni a novembre. Questa è la grande risorsa di Putin ed è per questo che vuole guadagnare tempo a tutti i costi.
Qual è il prezzo della pace? Non ci sarà pace se Putin non rinuncia a un’invasione completa, ora e in futuro. Si sta pagando un prezzo elevato per l’indipendenza. E il fattore umano continua a essere decisivo. Ormai gli ucraini sanno bene che la loro lotta è tutt’altro che un leggero sogno di gioventù. Marianna e la sua famiglia lo sanno bene. Davanti ai nostri occhi abbiamo una resistenza che dura da due anni. Una resistenza che ci parla dell’oggettività, della forza, del carattere irriducibile del desiderio di libertà. A chi è abituato a difendere un giorno il bianco e un altro il nero (tutti noi) sembrerà che gli ucraini siano troppo testardi. Ma il problema è un altro: gli uomini non rinunciano alla libertà, non smettono di chiamare le cose con il loro nome, a meno di cercare qualche accomodamento all’ombra del potere. Abbiamo esperienza di entrambe le cose.
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