Due voci “diversamente” rilevanti sono intervenute nei giorni scorsi sui conflitti israelo-palestinese e russo-ucraino: Francesco e Judith Butler, il capo dei cattolici e la maître a penser ebrea del “gender”. Il Papa ha detto che quando vedi che sei sconfitto, che le cose non vanno, devi avere il coraggio di alzare bandiera bianca. Non nel senso della resa , ma nel senso di negoziare. Negoziare in tempo. Accettando la mediazione di Paesi che si offrono per farlo. Francesco si riferiva alla guerra in Ucraina, dopo aver anche detto, nell’intervista alla Televisione svizzera che la trasmetterà il 20 marzo, che sono “irresponsabili i due che si fanno la guerra” in Israele-Palestina.
La Butler, più scandalosa, ha detto che l’assalto di Hamas ai civili israeliani del 7 ottobre 2023 (1.200 civili uccisi, 240 rapiti, 6.000 feriti e moltissime donne stuprate) non è terrorismo, né antisemitismo ma atto di resistenza armata prodotto da anni di colonizzazione e apartheid.
Dichiarazioni diversamente clamorose e coraggiose, ancorché nella sostanza non nuove e coerenti con le rispettive precedenti prese di posizione. Dichiarazioni che hanno fatto discutere e suscitato reazioni per lo più critiche: a muso duro senza tanti complimenti per la Butler, con garbo apparente e toni a volte curialmente felpati per Francesco.
La voce di Francesco suona dissonante rispetto a uno Zelensky deciso al tutto per tutto e a un Occidente, specie europeo, che sull’Ucraina ci tiene a fare la voce grossa, ma sempre meno sa che pesci pigliare (un Macron che armiamoci e partite, uno Scholz che nega i missili Taurus a Kiev…). Dare del sospetto putiniano a chiunque inviti a una revisione critica della geopolitica successiva alla caduta del Muro di Berlino è un attimo. Ed è anche comodo, ma suicida.
Francesco non si sostituisce agli analisti della politica internazionale e agli statisti, ma con la sua insistente indicazione della necessità di negoziare, implicitamente afferma tre grandi coordinate per una saggia politica: il realismo (la concreta considerazione della sofferenza e del destino dei popoli), la ragionevolezza (quindi l’attitudine alla mediazione e all’arte del possibile) e l’amore al vero più che alla propria ideologia (l’ammissione anche delle proprie eventuali responsabilità, la rinuncia alla guerra della disinformazione). Principi ben tematizzati in chiave moderna ed esistenzialmente incisiva nei primi tre capitoli de Il senso religioso di Luigi Giussani, ma profondamente radicati nel pensiero cristiano che ha innervato la cultura europea. Sono principi e criteri con cui la nostra civiltà, l’uomo di oggi, può riconoscere eventuali errori senza colpevolizzarsi in radice e quindi condannarsi all’autodissoluzione come illusoria unica via di redenzione.
Se ci vuole poco per farsi dare del putiniano, ci vuole poco anche a farsi dare dell’antisemita. E così chi critica la Butler quasi mai riconosce che essa ha chiaramente condannato l’assalto di Hamas del 7 ottobre, non condividendone i metodi, e che ha decisamente criticato la posizione dell’Harvard Palestine Solidarity Committee che attribuisce la colpa dell’attacco di Hamas interamente al “regime di apartheid” israeliano.
È vero piuttosto che c’è un’insidia, grave, nel pensiero della Butler, che non sta nel suo essere filo-ebraica anti-sionista. Sta, a modesto avviso di chi scrive, nella natura ideologica del suo pensiero. Il quale, detto in soldoni, fa del transgender il paradigma della libertà umana. Per cui donna, trans, queer, antifa, migrante sono figure accomunate dall’oppressione subita dall’ingiustizia congenita nella civiltà occidentale, basata su norme dettate dalla supremazia dell’uomo bianco, patriarcale, colonizzatore. Eccetera.
Detto così alla buona potrebbe sembrare roba accademica. Non lo è. È il pensiero dominante nella sinistra americana radicale, che come fu con il chewing-gum, la cocacola e i figli dei fiori, tende a plasmare la forma mentis soprattutto delle giovani generazioni cresciute a merendine e nichilismo, e non solo loro. Tende a plasmare, quasi per eterogenesi dei fini, le strategie delle multinazionalil e dei santuari del neo-liberismo. Su questa strada la senescenza europea non si riscatta e non si rigenera, ma si autodissolve. Non a caso in certe manifestazioni pro Palestina (di per sé magari anche giuste, comunque più che legittime) più d’uno rischia di confondere terroristi islamici con liberatori dall’oppressione. Generando nuove intolleranze: tipo la ragazza estromessa dalla manifestazione perché denunciava anche gli stupri subiti dalle donne israeliane, o il giornalista David Parenzo insultato e contrastato all’Università La Sapienza di Roma perché ebreo. Ma questi sono solo conseguenze e sintomi dell’errore di fondo sopra accennato: cioè quello di concepire la liberazione come totale e sempre mutevole autodeterminazione dell’individuo “incorporeo” e quindi come necessaria dissoluzione dell’appartenenza alla storia, alla comunità e alla cultura europea-occidentale. E invece realtà, ragione, corpo e anima, senso religioso affermano davvero l’umana libertà e la possibilità di una continua rigenerazione.
In questa alternativa si gioca il destino dell’Europa.
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