Il Presidente Usa Joe Biden – a valle del Discorso sullo Stato dell’Unione – ha dato una conferma ultima della sua volontà di ricandidarsi in novembre (con alta probabilità contro Donald Trump) annunciando la sintesi del suo programma politico-economico. Questo prevede un aumento della pressione fiscale per mantenere in equilibrio il bilancio federale, caricato di diverse voci di spesa ordinaria e straordinaria nel periodo medio del prossimo quadriennio presidenziale.

Nella manovra prevista per l’esercizio fiscale 2025 – che in Usa inizierà l’1 ottobre, un mese prima del voto per la Casa Bianca – uno “scostamento” di 7.300 miliardi di dollari verrebbe finanziato dell’Amministrazione Biden con un aumento delle tasse di circa 5mila miliardi di dollari, a sua volta imperniato su un incremento dal 21% al 28% dell’aliquota sui redditi aziendali e su un prelievo del 25% sui redditi prodotti da patrimoni superiori ai 100 milioni di dollari. L’azione consentirebbe di tenere sotto controllo deficit e debito (quest’ultimo già “oltre la linea rossa” di in tetto costituzionale).

In un programma di spesa dai forti accenti elettorali, Biden ha ovviamente enfatizzato il rafforzamento delle politiche sociali a favore di famiglie a basso reddito, soprattutto sul piano degli aiuti all’infanzia e all’edilizia popolare. Mentre sono rimaste per ora sullo sfondo le più ambiziose promesse elettorali del 2020 (come la cancellazione per via fiscale dei debiti universitari di centinaia di migliaia di studenti), è invece sottesa la continuazione, anzi l’espansione, dei grandi piani “trilionari” di sostegno alla riconversione dell’industria. Il più importante è l’Inflation Reduction Act (mirato alla ristrutturazione del settore energetico, ufficialmente sulla rotta della transizione verde); segue il “Chip act”, finalizzato alla ri-localizzazione negli Usa della produzione di microprocessori, etichetta-ombrello per un aumento della spesa militare in risposta all’emergenza geopolitica e in scia allo sviluppo impetuoso dell’Intelligenza artificiale.

È una prospettiva – quella del “tax and spend” – che non sembra peccare di linearità: anche nel confronto con le direzioni di politica economico-finanziaria seguite da Trump nel suo quadriennio alla Casa Bianca. È stato a metà del suo mandato che il Presidente repubblicano ha varato una classica riforma fiscale “pro-business”: con tagli ai prelievi e quindi alla spesa che – indubbiamente fino alla rottura del Covid – sostennero il Pil e la piena occupazione. È stato invece mancato l’obiettivo di aumentare i livelli salariali, anche in chiave sociopolitica di riduzione delle diseguaglianze (peraltro tradizionalmente poco presente nell’ortodossia repubblicana). Neppure Biden tuttavia è riuscito a far molta strada in quello che invece era un impegno esplicito della sua Amministrazione (simbolico il mancato aumento del salario minimo legale). La stessa crisi geopolitica – andata in escalation per la volontà Usa di contrastare l’aggressione russa all’Ucraina – ha avuto come effetto collaterale (anche in America) un’inflazione “energetica” a danno degli americani a basso reddito e un boom di profitti e di rialzi a Wall Street per le big di petrolio e gas. È quindi tutt’altro che sorprendente che Biden voglia far leva – per essere confermato alla Casa Bianca – su una forte prospettiva redistributiva. Le grandi corporation – sfuggite finora a ogni tentativo di tassazione degli “extra-utili” – devono finalmente “pagare pedaggio” in termini fiscali: così come i grandi privati titolari di patrimoni e rendite finanziarie.

Questo è dunque il “catalogo” politico-finanziario redatto del leader della maggior potenza occidentale, in carica fino al gennaio 2025. Tutti i capi di Stato e di governo alleati di Washington – in un ri-costituito Occidente – commetterebbero un errore se non ci riflettessero: così come stanno certamente già facendo gli elettori-contribuenti d’Oltre Atlantico.

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