L’espressione “intra moenia” è una locuzione latina che significa “tra le mura” ed era utilizzata per indicare qualcosa all’interno delle mura della città. Il termine è diventato di uso comune in sanità per identificare quella attività che prende il nome di “libera professione intramuraria”, cioè le prestazioni che sono erogate al di fuori delle attività previste dall’impegno di servizio dai medici di un ospedale pubblico utilizzando le strutture ambulatoriali e diagnostiche dell’ospedale stesso. Il cittadino che ne usufruisce è tenuto al pagamento di una tariffa intera (non un ticket) all’ospedale, il quale trattiene una percentuale della tariffa stessa (in genere inferiore al 10%) a copertura dei costi aziendali che deve sostenere e il resto va al medico che ha effettuato l’attività.

Le prestazioni che possono essere erogate in “intramoenia” sono generalmente “le medesime che il medico deve erogare attraverso la normale operatività come medico ospedaliero” e come per le altre spese sanitarie potranno essere detratte dalle imposte. La tariffa delle prestazioni in intramoenia è normalmente diversa (superiore) da quella presente nel tariffario delle prestazioni di specialistica ambulatoriale del Ssn vigente nella regione di erogazione, ma a fronte di questo superiore gravame da una parte il cittadino ha la possibilità di scegliere il medico a cui rivolgersi per ottenere la prestazione, e dall’altra accede a una specifica lista di attesa diversa da quella esistente in regime normale di servizio sanitario per la stessa prestazione.

Perché ne parliamo da queste colonne? Da una parte perché le Attività in libera professione intramuraria (Alpi) sono attività poco conosciute e dall’altra, soprattutto, perché sono state più volte oggetto di critiche politiche e mediatiche che meritano qualche riflessione.

L’idea dell’Alpi nasce agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, a fronte di liste d’attesa che davano già conto di evidenti problematicità, per pensare a qualche percorso alternativo in grado di alleggerire il carico istituzionale delle aziende e dei presidi ospedalieri sul fronte delle attività ambulatoriali. Per come è stata definita e caratterizzata (orario, tariffa, scelta del professionista, ecc.), l’Alpi si configura in pratica come un’attività privata svolta all’interno di una struttura pubblica e, per evitare gli evidenti contrasti di interesse che possono sorgere e assicurare un corretto ed equilibrato rapporto tra attività istituzionale e corrispondente attività libero professionale, non può comportare per ciascun dipendente un volume di prestazioni superiore a quello assicurato per i compiti istituzionali.

È evidente che l’Alpi si pone in netto contrasto con i tre principi (universalità, uguaglianza, equità) attorno ai quali è stato costruito il Ssn: crea disuguaglianza nel trattamento (scelta del professionista, immissione in liste di attesa che hanno tempi di attesa ridotti), è causa di esplicita iniquità in quanto richiede al cittadino l’esborso di un importante contributo economico (tariffa), e privilegiando gli abbienti non risulta accessibile a tutti.

Raggiunge l’obiettivo di contribuire alla riduzione dei tempi di attesa? Premesso che i motivi che hanno portato in questi anni al deciso allungamento dei tempi di attesa sono molteplici, complessi, e di non facile affronto (come dimostrano gli insuccessi delle diverse iniziative messe in campo da molte regioni per arginare o almeno ridurre gli attuali tempi di erogazione), l’Alpi nel momento in cui dà luogo a una doppia lista di attesa, più corta per chi richiede prestazioni in intramoenia, automaticamente riduce i tempi di attesa per i pazienti che ne usufruiscono, ma i dati disponibili dicono che l’attività libero professionale intramuraria non ha praticamente alcun effetto in generale sulla riduzione dei tempi di attesa. Secondo le stime che risultano dal monitoraggio di Agenas (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali) dell’erogazione delle attività ambulatoriali nel 2022, la percentuale di prestazioni eseguite in Alpi è attorno al 8%, risultando complessivamente poco rilevante nel contribuire globalmente alla riduzione dei tempi di attesa.

Preso atto che l’Alpi, al di là delle motivazioni per la sua introduzione e regolamentazione nel tempo, non sta avendo alcun effetto pratico sulla riduzione dei tempi di attesa, crea evidenti disparità nell’accesso alle prestazioni, e (dati alla mano) non rappresenta un percorso alternativo bensì aggiuntivo rispetto al percorso istituzionale, probabilmente si deve riconoscere un certo valore all’ipotesi di chi ritiene che l’Alpi trova in realtà la sua vera ragione a compensazione in qualche misura dei bassi salari del personale medico e può quindi agire come parziale freno alla fuga dei professionisti dal Servizio sanitario nazionale (in particolare verso la sanità privata).

Non è questo il luogo per approfondire ulteriori, e necessarie, considerazioni tecniche, ma a conclusione di queste note sembra interessante riportare un commento (Geddes, Quotidiano Sanità, 2.11.2023) a proposito di come, in quasi 30 anni, i diversi Governi hanno affrontato il tema delle Alpi: “è lo specchio del diverso indirizzo che le forze politiche e i singoli responsabili del dicastero della Sanità hanno dato – o hanno sperato di dare – alla sanità del nostro Paese. Compagini governative, forze politiche, ministri che hanno istituito l’Alpi, altri che hanno inserito l’incompatibilità fra extramoenia e direzione di struttura, in base a un elementare principio di conflitto di interessi; chi ha tentato, o ha sperato, di governare tale istituto, chi invece, sulla base di un principio di laissez faire, laissez passer, ha inteso abolire ogni incompatibilità”.

Visioni diverse, azioni diverse, proposte diverse, che lasciano aperta qualche domanda: da quelle più estreme (ma abbiamo proprio bisogno delle Alpi?) a quelle più possibiliste (come devono essere le Alpi che ci servono?), tenendo anche conto che non mancano quelli per i quali le Alpi vanno bene così come sono oggi.

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