L’incontro con persone vive che riaprono alla vita e aiutano a redimerla non può essere precluso a nessuno, qualunque cosa abbia fatto, anzi soprattutto se ha sbagliato vuole ricominciare. Per questo chi diventa amico dei detenuti nelle carceri, oltre a vivere un’opera di misericordia spirituale, attua il quasi dimenticato principio costituzionale “Vigilando redimere”.
In questi anni spesso ci siamo sentiti chiedere “cosa ci fate qui?”, “ma chi ve lo fa fare di spendere il vostro tempo libero in un carcere?”. Bastano queste semplici domande per aprire interrogativi e riflessioni in primis sulla nostra società, ancor prima di discutere della situazione su chi risiede lì e che agli occhi dell’opinione pubblica dovrebbe stare lontano dal vivere quotidiano poiché è il segno di una macchia spregevole. Se pensiamo che in Italia a oggi quasi 60.500 persone sono detenute, e altre 85.500 circa scontano l’esecuzione della pena fuori dal carcere, si comprende che non si può e non si deve nascondere una realtà, sicuramente scomoda, ma ancora viva. Il carcere non è e non deve essere la tomba della giustizia umana, perché il male che porta alla condanna, il dolore per una caduta, per una sconfitta, deve avere una possibilità di ripartenza. L’uomo non può essere il suo errore.
L’Associazione Incontro e Presenza entra negli Istituti di reclusione da ormai quasi quarant’anni per scoprire questa realtà ancora viva, nonostante tutto. Certamente per chi la vive la detenzione è una delle esperienze più complesse, più impattanti sulla vita, ma poi non così lontana dalla vita di tutti i giorni, perché riguarda le nostre città, i nostri quartieri, le nostre scuole i nostri vicini di casa e alle volte le nostre famiglie. La sfida del cambiamento, però, passa attraverso la costruzione o ri-costruzione dell’io che si sviluppa dentro la società, in una comunità che ti accoglie così come sei, e dove imparare a guardare le ferite, a perdonarsi, a perdonare. Il carcere molte volte aiuta a cambiare, così come cambia chiunque metta un piede dentro anche solo per una visita, ma occorre una presenza esterna che possa aiutare.
Nel transitare in una zona del centro di Milano non si può non notare il Carcere di San Vittore, e meno male che non è stato confinato in una desolata periferia cittadina, perché con tutte le sue contraddizioni, le condizioni di degrado dell’immobile, il sovraffollamento, posto lì ha la possibilità di essere guardato come un luogo tutt’uno con la vita della città, non solo con il fine di impedire al reo di compiere altri reati, ma anche a monito per tutti gli altri cittadini a non commettere gli stessi errori.
Partendo da questa drammatica realtà, Mirella Bocchini, fondatrice dell’Associazione Incontro e Presenza, ebbe l’intuizione che là dentro ci fosse la possibilità di vedere la pena trasformare la colpa in responsabilità senza cancellare la dignità dell’uomo, partendo proprio dalla possibilità di incontrare coloro che nelle carceri risiedono, senza esclusione di nessuno, senza la censura per alcuni reati e senza mai dimenticare le vittime delle azioni negative commesse. Incontri che hanno generato una presenza nel tempo fino ad arrivare a oggi, coinvolgendo molte persone che offrono il loro tempo libero per andare a trovare i detenuti e spesso le loro famiglie. Entrando non si porta niente di materiale, non si fanno corsi di formazione o di istruzione, ma si offre una presenza viva che incontra e che genera incontri. Il bello è che è sempre l’incontro tra due o più libertà, chi decide di dedicare il suo tempo libero in quest’opera e chi liberamente decide di aderire alla proposta. Un esercizio di libertà reciproca, e sembra assurdo usare la parola libertà dentro un penitenziario.
Nessuno dovrebbe uscire dal carcere e terminare la sua pena senza aver avuto la possibilità di provare a capire che è possibile vivere in un altro modo e questo dovrebbe avvenire soprattutto durante il periodo di detenzione, ma questa è la vera emergenza poiché non è molto sviluppata l’idea di educazione, di consapevolezza rispetto alla realtà drammatica che accompagna la detenzione, e se non si lavora su quest’aspetto qualunque misura legislativa risulterà insufficiente.
Sorprendentemente la comunità civile esiste, i volontari, gli operatori sociali, gli enti religiosi sono tutti protesi a incidere positivamente nel cammino di ripartenza trasformando i pochi talenti in tesori preziosi, però si fa veramente fatica a rispondere ai bisogni materiali che nascono da questi incontri. Partendo dalle prime necessità che si palesano già all’inizio della detenzione, con il bisogno di abiti e biancheria, di materiale per l’igiene personale, tutte cose che marcano il limite tra chi ha alle spalle una famiglia o una comunità di riferimento e chi invece è solo.
Durante il periodo di detenzione emergono poi tanti bisogni, dalla salute ai problemi dovuti al mancato sostentamento delle famiglie fino ad arrivare al fine pena dove chi esce da un periodo di reclusione si trova indubbiamente in gravi difficoltà, sia pratiche sia relazionali, senza una casa, senza un lavoro e molto probabilmente anche senza una famiglia di riferimento ed è qui che se la persona non viene sostenuta e accompagnata in percorsi di ripresa della propria vita è probabile che ripeterà il suo errore. Per questo c’è un grande bisogno di fare rete tra le varie opere che lavorano in questo mondo che a oggi si sostiene da solo, ma che ha bisogno di condividere il peso delle iniziative sotto tutti gli aspetti.
La cartina di tornasole per misurare il grado di giustizia di un Paese, di una società si denota da ciò che affermava Voltaire: “Non fatemi vedere i vostri palazzi, ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione.” Fortunatamente quello che salva da ogni rischio di una sterile pianificazione di aiuto a tavolino è la sorpresa che arriva proprio da chi non te lo aspetteresti mai. A tal proposito un detenuto ci scrive: “La vostra conoscenza è stata per me come aprire una finestra chiusa da mille anni di cui non ero a conoscenza del panorama eccezionale che potesse celare”.
La speranza è di continuare ad aver la possibilità di aprire finestre e fare l’esperienza di un incontro.
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