La stagione delle assemblee delle grandi banche sta riportando sulla ribalta gli “extra-utili” bancari: così, almeno, li aveva definiti un’ipotesi di tassazione straordinaria avanzata dal Governo nel cantiere della manovra 2024. L’intento non è andato in porto, nonostante la linearità dell’argomento messo sul tavolo dall’Esecutivo: il boom di profitti in allora in arrivo – poi puntualmente annunciati nelle scorse settimane – è stato dovuto al forte rialzo dei tassi deciso dalla Bce in funzione anti-inflazione. E questo si era abbattuto solo sul fronte creditizio (appesantendo i costi dei mutui-casa e dei finanziamenti alle imprese) senza invece ritoccare verso l’alto le remunerazioni sui depositi. Tutta la “forbice” – fra zero e oltre quattro punti – è dunque andata a ingrossare i margini d’interesse e quindi gli utili finali. Che nelle prossime settimane saranno destinati largamente agli azionisti: fra i quali spiccano grandi investitori internazionali.
Resta questa, d’altronde, la motivazione politica centrale in una rinnovata “questione bancaria”: il sistema nazionale – dopo oltre un trentennio di grandi trasformazioni – sembra “generare valore” per investitori non italiani, oltre al fatto di intermediare una parte del risparmio delle famiglie verso prodotti d’investimento che hanno come orizzonte i mercati globali, non le imprese italiane.
La resistenza del fronte bancario nazionale ha avuto successo grazie a numerose leve: non ultima una campagna di stampa internazionale timorosa che l’Italia faccia da apripista a un serie di tasse straordinarie su tutti i settori che hanno beneficiato del rialzo “da guerra” dei tassi. Un secondo argomento usato dall’Abi (tacitamente appoggiata dalle autorità monetarie) ha puntato sull’uscita già difficoltosa dall’emergenza pandemia: durante la quale la redditività delle banche era caduta e la stessa Bce aveva imposto di non distribuire dividendi e rafforzare invece le basi patrimoniali.
Resta il fatto che gli utili record sono ora stampati sui progetti di bilancio (compreso quello di Mps, controllato dal Mef) e le quotazioni delle banche italiane sono sui massimi, come tutta Piazza Affari. Non sembra facile, per il settore, ribadire il no a qualche forma una “restituzione straordinaria”, in chiave di sussidiarietà economica. Questa, tuttavia, non è più immaginabile per via fiscale, come originariamente aveva concepito il Governo anche in vista di un anno di crescita debole. Paiono invece restare aperte due opzioni.
La prima e principale guarda direttamente ai clienti, sui due versanti del bilancio. Le banche possono contenere i tassi su mutui e prestiti (e i costi delle commissioni per i servizi) e alzare le remunerazione sulla raccolta. È ovvio che ogni ipotesi del genere cozza frontalmente contro l’architettura antitrust (nazionale ed europea) che da molti decenni promuove la concorrenza di mercato e il non intervento pubblico come principio assoluto, anche nel settore dei servizi finanziari. Però in una fase in cui tutte le dimensioni politico-economico sono tornate in discussione, anche lo studio di un qualche accordo fra Governo e Abi non sembra più tabù. Ed è un fatto che perfino le voci mediatiche che hanno difeso fino all’ultimo il no alla tassa sugli extra utili, oggi sono in prima fila nel riconoscere le storture “di sistema” evidenziate dai bilanci 2023.
C’è comunque un secondo fronte sul quale le banche italiane possono “creare valore” per la loro Azienda-Paese, cioè ancora una volta per i loro clienti, che sono anche i contribuenti chiamati a sopperire al mancato gettito straordinario. Possono mettere in sicurezza il sistema promuovendo aggregazioni che costruiscano gruppi più solidi, efficienti, capaci di servire meglio famiglie e imprese italiane, anzitutto investendo in fintech. Operazioni che – a cominciare dalla riprivatizzazione di Mps – abbiano anche il fine di mettere al riparo il sistema bancario nazionale dai dissesti dell’ultimo decennio, costati già troppi miliardi di euro alle finanze pubbliche e alle strutture di garanzia interbancaria.
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