La dolce certezza di Giovanni Bellini

Nonostante rappresenti un momento doloroso, sia fisico, che morale, il Compianto di Giovanni Bellini riesce a trasmettere serenità

Ci si può sentire sereni davanti alla rappresentazione di un Compianto? Il soggetto, così diffuso nell’arte e nelle immagini devozionali, rappresenta il momento che precede la deposizione di Cristo morto nel sepolcro. È un soggetto che affonda nel dolore, sia fisico che morale. Che genera strazio come si può riscontrare davanti al capolavoro urlante di Nicolò dell’Arca a Bologna.

Al Museo Diocesano di Milano in occasione di questa Quaresima è arrivato una delle più celebri rappresentazioni del Compianto, quella di Giovanni Bellini, proveniente dai Musei Vaticani. L’esatta intitolazione dell’opera è Imbalsamazione o Unzione del corpo di Cristo, ma poco cambia, in quanto siamo al culmine del dramma, nel momento dell’immensa tristezza che precede la definitiva separazione da quel corpo amato. Eppure questo capolavoro di Bellini sembra avere un accento diverso. Attorno a Cristo seduto sul bordo del sepolcro ci sono i due personaggi che, come racconta il Vangelo di Giovanni, ne avevano preparato il corpo per la sepoltura, a cui si è aggregata anche la Maddalena. C’è molta calma in questa scena. Ognuno sa quello che deve fare, e tutti si adoperano con molta sicurezza attorno a Gesù. La Maddalena ne sta curando la ferita del chiodo su una mano; Nicodemo regge il vasetto degli unguenti; Giuseppe d’Arimatea con grande delicatezza sostiene la schiena del Signore e si accosta al suo volto sofferente.

 

L’opera era stata dipinta per essere la cimasa di una grande pala d’altare con l’Incoronazione della Vergine per la chiesa di San Francesco a Pesaro, uno straordinario capolavoro oggi conservato ai Musei Civici della città marchigiana. Stava quindi a oltre sei metri d’altezza e questo spiega non solo il taglio dall’alto in basso, ma anche la monumentalità della costruzione che sale quasi a piramide per culminare nella figura di Nicodemo dalla stazza quasi statuaria. Oggi lo vediamo ad altezza d’occhio e quindi questa solidità di costruzione appare ancor più evidente. Insomma, siamo davanti a un capolavoro che a dispetto della tragicità del soggetto rappresentato non sembra registrare uno sbandamento. Bellini non rinuncia immettere quella dolcezza che è il segno distintivo del suo genio; quella dolcezza che gli ha permesso di addentrarsi con una frequenza e una profondità come nessun altro artista nella storia nella relazione della Madonna con il Bambino.

È dolcissimo l’intreccio delle mani di Gesù con quelle della Maddalena, che sembrano incastrarsi le une nelle altre in modo meravigliosamente naturale, come se si chiamassero da sempre. È molto umano il modo con cui Giuseppe D’Arimatea appoggia il suo volto a quello di Gesù, tanto che le loro barbe sembrano confondersi. Quanto a Nicodemo si erge, con il suo corpo buono e saldo, come un baluardo protettivo. Sopra di loro si staglia un cielo azzurro, appena turbato da nuvole inoffensive, che prima dello smembramento napoleonico veniva percepito come continuazione del cielo sereno sullo sfondo dell’Incoronazione sottostante.

Insomma, tutto porta a pensare che i tre testimoni “al lavoro” in questo Compianto siano investiti dalla coscienza che non è il sepolcro il destino di quel corpo a cui stanno prestando intelligente cura. Il genio di Bellini ce lo suggerisce, con la dolce sicurezza che caratterizza la sua pittura. C’è da guardare a lungo e da esserne grati.

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