Venerdì scorso ha chiuso i battenti l’Agenzia nazionale delle politiche attive per il lavoro: la cui missione si era concentrata, dall’avvento di M5S al ministero del Welfare fino al commissariamento, sulla gestione di una rete di “navigator” per orientare al lavoro i percettori di Reddito di cittadinanza.
Alcuni numeri dell’operazione sono certi: 34 miliardi spesi dal 2019 a oggi nell’erogazione di Rdc fino a 1,4 milioni percettori; 3mila navigator assunti per un costo complessivo di circa 180 milioni. Le cifre diventano più incerte sulle dinamiche del “patto d’inclusione” che ha vincolato centinaia di migliaia di percettori. A metà 2022, ad esempio, l’Anpal segnalava che erano circa 920mila i beneficiari del Rdc “indirizzati ai servizi per il lavoro” (due terzi di questi non occupati), ma sul loro destino ultimo e sul ruolo dei navigator le cifre (contrastanti) sono finite annegate nella campagna elettorale. E quindi nella decisione del nuovo Governo di centrodestra di “eutanasizzare” il Rdc e infine anche l’Anpal, nata sulla scia ambiziosa del Jobs Act del governo Renzi. Nessuna voce, comunque, si è levata a difendere la bontà del Rdc al di fuori da un mero perimetro assistenzialistico e anche solo simbolicamente in territorio di sviluppo.
Quasi in contemporanea al Mef è esplosa una mini-crisi attorno alla bolla contabile che ha gonfiato il deficit fino al 7,2%, contro il 5,3% indicato in autunno nel Nadef 2024. Ne sono quasi interamente responsabili i crediti fiscali maturati con il ricorso al Superbonus: 40 miliardi in più dei 109,5 messi a bilancio dal Governo nella manovra per l’anno in corso. Se l’impatto dell’operazione Superbonus sui conti pubblici si va dunque delineando, mentre sui conti l’impatto in termini di sostegno e stimolo all’economia (ma anche sull’inflazione pre-bellica), esistono stime diverse.
L’Ufficio Parlamentare di Bilancio ha citato due studi. Il primo – a cura del Consiglio nazionale degli ingegneri ripreso da Censis- afferma che due anni di Superbonus avrebbero prodotto 73 miliardi di Pil (quello del solo 2022 ha sfiorato 1.950 miliardi). Una statistica più generosa è venuta dal think tank Nomisma: 195 miliardi di effetto-Superbonus aggregato (anche se quello diretto sarebbe non superiore a 87,7 miliardi). Nel bilancio del Superbonus vi sono tuttavia anche altri dati problematici (condivisi in parte nella natura con il Rdc): le frodi. Oppure anche quello – forse non liquidabile a prescindere come “economicamente malsano” – delle 11mila imprese edili nate e morte sotto l’arco del Superbonus.
Rdc e Superbonus appartengono all’epoca politico-economica precedente il Pnrr: benché i 207 miliardi assegnati dall’Ue all’Italia verso i traguardi della transizione eco-energetica e digitale siano solo di poco superiori ai 180 miliardi di risorse fiscali mobilitate nella legislatura 2018-2022 (fra l’altro con i parametri di Maastricht sospesi). Egualmente significativo può essere un altro confronto grezzo: quello con i 10 miliardi circa di “costo fiscale” complessivo per i primi quattro anni del piano nazionale Industria 4.0 (superammortamento e iperammortamento di macchine e sistemi industriali digitali e automatizzati). Qui certamente il contributo alle dinamiche macro dell’economia si è presentato da subito diverso: nel solo primo anno del piano erano stati mobilitati investimenti pari a cinque volte i bonus erogati. Con un effetto multiplo: fatturato per le imprese produttrici; Pil per l’Azienda-Paese; aumento della competitività per le imprese acquirenti; chiamata di giovani dotati di professionalità digitali e incremento delle partnership di ricerca fra aziende e università.
Il lungo addio a Reddito e Superbonus non può che interrogare le diverse cabine di regia della politica economica, finanziaria e industriale.
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