“Viviamo in un’epoca in cui le persone si pongono molti interrogativi e trovano molto difficile darsi delle risposte: è un dato di fatto che in alcune parti dell’Occidente tutto ciò stia generando una forte e significativa crisi soprattutto tra i giovani. Sono confusi e, quel che è peggio, non vengono incoraggiati a cercare. I giovani non comprendono nemmeno cosa li renda infelici o provochi il loro disagio”. Così il filosofo canadese Charles Taylor nel suo testo Questioni di senso nell’età secolare uscito qualche mese fa per l’editore Mimesis.
È vero. Siamo pieni di interrogativi. Pieni di inquietudine. Confusi e insicuri. Come potrebbe essere diversamente in un mondo che vede all’orizzonte solo minacce alla sua sicurezza? Guerre sempre più prossime alle soglie di casa, rischio nucleare non più così futuribile come pensavamo, allerta terrorismo in agenda. Per non parlare poi delle minacce che vengono dalle emergenze ambientali o dal rischio di uno sviluppo tecnologico fuori controllo. La realtà sembra incombere su di noi in maniera sempre più minacciosa. E forse una delle conseguenze più inquietanti di questa situazione è l’assenza di punti di riferimento credibili per la vita personale e sociale.
Facciamo anche fatica a fidarci della politica, siamo stanchi di veder prevalere di continuo contrapposizioni pregiudiziali, incapacità di mediare, mancanza di passione per il bene della gente. E poi siamo sempre più soli. Nei rapporti con gli altri troppo spesso la diffidenza la fa da padrona, l’altro, chiunque esso sia, prima di essere un possibile alleato nell’avventura della vita, è un potenziale nemico da cui guardarsi. Siamo perfino arrivati a essere scettici e sospettosi nei confronti delle religioni. Arriviamo anche in alcuni casi a ritenerle colpevoli degli estremismi e delle loro tragiche conseguenze.
Ma non ci resta proprio più nulla per vivere, per accorgerci della grandezza del nostro io? E per assaporarla con gratitudine? Se proviamo a tirar fuori un po’ realismo vediamo che il nostro cuore è ancora capace di desiderare e di stupirsi. Sappiamo ancora riconoscere l’esperienza di quegli istanti in cui la bellezza di un cielo stellato o di una musica struggente, lo sguardo di un bambino o il fascino di un innamoramento ci fanno vibrare di commozione. Quegli istanti in cui dietro l’angolo della paura o dello scetticismo balena un’insoddisfazione più grande, quella che Baudelaire chiamava “la malinconia di una natura esiliata nell’imperfetto che vorrebbe possedere su questa terra il paradiso”. E questa è l’esperienza che abbiamo in comune con gli altri uomini e che può farci attraversare la drammaticità del reale trepidanti ma non impauriti, certi dell’umano che è in noi e non confusi.
Questo può renderci “cercatori”, come il filosofo Taylor suggerisce nel testo citato. La nostra può essere “la cultura dei cercatori”. Cercare è una prospettiva affascinante. Cerca chi non ha paura del nuovo. Chi sa quale è il bisogno cui vuole rispondere e ha il coraggio di paragonare i risultati della sua ricerca con tale bisogno. Cerca chi sa riconoscere i compagni di strada adeguati e sa allearsi con loro.
Ma in fondo cosa cerchiamo? Lo sa bene l’inconsolabile Orfeo di Pavese che, dopo avere perso per sempre la sua Euridice, afferma “Io cercavo, piangendo, non più lei, ma me stesso. Un destino se vuoi. Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo”. Cerchiamo noi stessi, il senso del nostro esserci, cerchiamo un destino. Cerchiamo quel paradiso di perfezione di cui parla Baudelaire.
Scrive don Giussani: “In tutti i tempi l’uomo ha cercato di immaginare la relazione che intercorre tra il punto effimero della sua esistenza e il significato totale di essa. La religione è l’insieme espressivo di questo sforzo immaginativo”. Viviamo circostanze in cui abbiamo bisogno di riandare al motivo per cui le religioni sono nate, ritrovando il ruolo positivo che esse possono avere nel nostro tempo. Un grande maestro di fede e di dialogo, il Cardinale Tauran, in quel 2015 che aveva visto ripetutamente in Francia attacchi terroristici di matrice islamista, non si stancava di ripetere: “La religione non è la causa di questi misfatti, ma la religione può essere parte della soluzione”. E ancora “il dialogo è un dovere. Siamo condannati al dialogo”.
Oggi, anche ricordando quelle parole, non possiamo non vibrare di speranza davanti alla stima con cui papa Francesco guarda i fedeli di ogni religione, la sua instancabile testimonianza di dialogo, i suoi viaggi nei Paesi mussulmani, e quel memorabile documento sulla Fratellanza umana firmato nel 2019 negli Emirati Arabi, insieme al Grande Imam di Al-Azhar.
E l’accadere di questo dialogo possibile, di questo incontro generatore di amicizia non è poi così lontano. Sono tanti gli amici musulmani, ebrei, buddisti, ma anche gli amici laici o di altre religioni, che molti di noi hanno conosciuto. Amici con i quali condividiamo il desiderio di pace perché all’inizio abbiamo condiviso un’amicizia carica di umanità e di stima reciproca. Sono gli amici con i quali continuare il cammino della ricerca. Perché non si smette mai di cercare. Se non cercassimo più perché il mattino della Resurrezione, il mattino di ogni nuovo giorno, dovremmo correre, come la Maddalena, per incontrare Uno che ancora una volta risponda al nostro pianto e ci chiami per nome? Corriamo per rincontrarlo, ora, nel presente di ogni istante. E in questa corsa diventiamo sempre più amici di ogni “cercatore”.
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