Mi è ricapitato di leggere in questi giorni un aforisma, attribuito a Confucio, che è molto noto perché di facile comprensione e dal significato piuttosto diretto e condiviso: “Non è importante il colore del gatto: basta che prenda i topi”. Chi infatti non sarebbe favorevole all’idea che innanzitutto contano i risultati? Il problema è che in questo contributo non si vuole parlare di economia, di scuola, o addirittura del campionato di calcio, dove è ben definito cosa si debba intendere per risultato (anche se in quest’ultimo, per altro, l’aforisma privilegiato non è confuciano ma è quello trapattoniano del “non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”, che riguarda sempre i gatti ed il tema dei risultati però con un diverso taglio), ma si intende discutere di sanità, un contesto per il quale una delle prime domande che ci si pone è proprio cosa si deve intendere con l’idea di risultato.

Nelle scorse settimane è stata pubblicata l’usuale classifica annuale fatta da Newsweek sui migliori ospedali del mondo: quest’anno ne sono stati valutati 2.400 in 30 Paesi. Come noto la classifica si basa su un sondaggio fatto online (oltre 85.000 esperti medici hanno partecipato) e su dati provenienti da indagini sulla soddisfazione di pazienti che sono stati ricoverati. Ai primi posti arrivano quasi sempre gli stessi (tutti americani, quest’anno con l’inserimento al terzo posto di un ospedale canadese); sono presenti in classifica anche gli italiani (il primo è il Gemelli di Roma, 35°, seguito dal Niguarda di Milano, 52°). È questo “il” risultato che si aspetta Confucio? Di sicuro è “un” risultato.

Sempre nelle scorse settimane sono stati pubblicati i dati provvisori del ministero della Salute sul monitoraggio della erogazione dei Livelli essenziali di assistenza (Lea). La fotografia che emerge segnala un peggioramento nell’erogazione dei servizi essenziali: solo 9 tra regioni e province autonome raggiungono la sufficienza in tutte e tre le aree valutate (prevenzione, assistenza ospedaliera, assistenza territoriale), mentre 12 sono insufficienti in almeno uno dei tre livelli. Anche in questo caso ha senso chiedersi se è questo “il” risultato cui fa riferimento l’aforisma confuciano.

Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Secondo le informazioni disponibili portate anche a livello europeo il nostro Paese ha realizzato ad oggi tutti gli impegni che si era proposto di realizzare, e in sanità ha aperto case di comunità, ospedali di comunità, centrali operative territoriali, nel numero previsto dagli atti di programmazione. Non entriamo nel merito (ne abbiamo parlato più volte), ma viene spontaneo chiedersi se si applica a questo risultato, nell’ottica dell’aforisma, l’articolo determinativo “il” o se invece sia da preferire l’articolo indeterminativo “un”.

Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) produce e pubblica periodicamente valutazioni di esito delle cure, con particolare (ma non esclusivo) riferimento alle attività delle strutture ospedaliere. Secondo le analisi condotte dall’Agenzia (le ultime riferite, ad esempio, ai dati di ricovero del 2022), molti ospedali hanno presentato delle ottime performance (e i politici di riferimento ne hanno subito approfittato), mentre molti altri (troppi si dovrebbe aggiungere) hanno segnato risultati di esito pessimi. Sorge di nuovo allora la domanda se è questo “il” risultato sanitario a cui va il pensiero di Confucio.

E l’elenco può continuare all’infinito (in senso metaforico) visto che ci si è limitati a citare direttamente solo le valutazioni lette più di recente: che dire, infatti, dei risultati sui tempi di attesa, sull’erogazione delle attività in intramoenia, sulla partecipazione alle attività di prevenzione (screening, attività fisica, abitudini di vita, ecc.), sulle performance economiche delle regioni e province autonome, su …, tutti elementi dove vengono periodicamente presentati dei risultati? Ma sarebbe opportuno tirare in ballo anche quelle attività dove parlare di risultati è senza dubbio molto più difficile: si è da poco ricordata la giornata dedicata alle malattie rare, soprattutto per quelle patologie che non attraggono (per diversi motivi) l’interesse di cui avrebbero bisogno; è acceso il dibattito sul fine vita per alcune tipologie di pazienti; ci sono malattie e condizioni dove l’unico risultato è l’attesa del “dies natalis”; e via di questo passo.

Tante misure di risultato, tante diverse valutazioni, tante differenti metodologie (ciascuna con i propri pregi e difetti), tanti altrettanto differenti risultati, e soprattutto tanti “risultati” (tra virgolette perché non si sa neppure come definirli) che non entrano in queste valutazioni: quale è il topo che il gatto di Confucio deve prendere? Davvero il risultato anche per il gatto è solo quello di prendere i topi?

Chi scrive, avendone fatta per molti anni (e facendone ancora) il cuore della propria professione, è molto favorevole alle valutazioni in sanità, alla misura del raggiungimento di obiettivi, all’identificazione di risultati e alla loro valorizzazione, ma con almeno due consapevolezze: da una parte, che ognuna di queste diverse valutazioni vede sempre solo un pezzo della realtà (grande o piccolo, più o meno rilevante), magari anche significativo e importante ma sempre solo un pezzo; dall’altra, che ci sono grandi pezzi di realtà non (o difficilmente) valutabili, o per i quali il concetto di risultato non è nemmeno formulabile, ma che meritano di essere ugualmente vissuti a fondo, magari discutendo del colore del gatto e non se è capace di prendere i topi.

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