Nel film di animazione I Croods (2013) c’è una scena che mi ha sempre molto colpito. Il film racconta la storia di una famiglia preistorica nella quale il padre, per proteggere gli altri membri, inculca la paura per tutto, in particolare per il buio. Poco prima del tramonto del sole tutti sono costretti a rinchiudersi nella grotta in attesa della prossima alba. Tutti tranne una, la figlia, Hip. Lei, quando il padre chiama per la grande ritirata serale, scappa e si arrampica sul punto più alto della montagna per poter “toccare” con le dita della mano gli ultimi raggi di sole. In una di queste fughe, arrivata in cima, rivolgendosi al sole, dice: “Ti prego, torna anche domani”.

Ho sempre visto, in quella preghiera, il desiderio che ogni uomo ha di una compagnia affidabile nella propria vita. La festa dell’Ascensione introduce, in questo desiderio, una novità radicale. Spesso, infatti, siamo portati a pensare che una compagnia sia efficace quando assorbe a tal punto i singoli che, quasi, non hanno più bisogno di decidersi. Nasce così una sorta di comunitarismo che non ha tempo per attendere il “sì” di ciascuno, e non gusta la possibilità di poterlo veder fiorire, ma si gonfia per le adesioni.

Vengono in mente le parole del Papa pronunciate agli Stati generali della natalità lo scorso 10 maggio: “Il problema non è in quanti siamo al mondo, ma che mondo stiamo costruendo”. È una sfida che rimane vera in tutti gli ambiti. I numeri dicono fino a un certo punto, la vera questione sono le ragioni per cui ci si muove. Per questo, con l’Ascensione, Cristo entra nella definitività del suo rapporto con il Padre, sottraendosi alla logica del possesso umano. Si realizza così quella reale compagnia a ciascun uomo che, altrimenti, rimarrebbe un’utopia. Come disse Benedetto XVI nell’omelia per l’Ascensione del 2009: “In Cristo asceso al cielo, l’essere umano è entrato in modo inaudito e nuovo nell’intimità di Dio; l’uomo trova ormai per sempre spazio in Dio. Il ‘cielo’, questa parola cielo, non indica un luogo sopra le stelle, ma qualcosa di molto più ardito e sublime: indica Cristo stesso, la Persona divina che accoglie pienamente e per sempre l’umanità, Colui nel quale Dio e uomo sono per sempre inseparabilmente uniti. L’essere dell’uomo in Dio, questo è il cielo”.

L’essere entrati nell’intimità di Dio ci permette quella libertà che nessuna compagnia può garantirci, quella di essere noi stessi. Il primo e indiscusso Compagno del nostro cuore ha deciso di essere proprio Cristo, coinvolgendo la nostra vita nella vita della Trinità.

Con l’Ascensione, quindi, Gesù non ha inaugurato il tempo della sua assenza, come se adesso dovessimo renderlo presente noi con le nostre iniziative, ma ha definitivamente attratto a sé la nostra natura permettendo così a ciascuno di noi di poter dire sempre e liberamente il proprio “sì”. Più stringiamo il rapporto con Lui, più acquistano autenticità i rapporti con gli altri e con la realtà tutta.

Una delle conseguenze più preziose è quella che Benedetto XVI richiamò nell’omelia già citata: “Il carattere storico del mistero della risurrezione e dell’ascensione del Cristo ci aiuta a riconoscere e a comprendere la condizione trascendente della Chiesa, la quale non è nata e non vive per supplire all’assenza del suo Signore ‘scomparso’, ma al contrario trova la ragione del suo essere e della sua missione nella permanente anche se invisibile presenza di Gesù, una presenza operante mediante la potenza del suo Spirito”. Il Figlio ascende al Padre per inviare lo Spirito. Viviamo nel tempo dello Spirito e, come scrive San Paolo, “dov’è lo spirito di Dio lì c’è libertà”. Conviene non rinunciarvi.

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