La campagna elettorale per il voto europeo continua a essere vuota di contenuti: non solo in Italia. Le forze politiche – tutte, a cominciare dai contenitori europei – paiono impegnate unicamente nelle schermaglie preliminari al riassetto dell’organigramma Ue, sulla base di sondaggi particolarmente malfermi. Le grandi questioni strategiche – quelle via via accumulate dall’Agenda di Lisbona, dalla pandemia e poi dalla crisi geopolitica – sono trattate per mantra, spesso datati e con approccio residuale. I 400 milioni di elettori si sentono per molti versi chiamati a un referendum su questo o quel Premier/Paese o su questo o quel partito (nazionale o europeo) e non su temi come la transizione verde, la competitività dell’industria Ue, la ricostruzione di un welfare fiscale da tempo insostenibile o anche l’allargamento dell’Unione a un Paese come l’Ucraina.
La stessa Ursula von der Leyen – Presidente uscente della Commissione e candidata dal Ppe a un secondo mandato – ha accentuato ieri la sua personale campagna con un’intervista al Financial Times (il giornale dei mercati, basato ormai fuori dall’Ue). In essa ha tentato di raccordare la principale sfida tecnocratica per la futura governance Ue (la gestione del budget dell’Unione sul versante degli aiuti ai singoli Paesi) con il nodo politico delle riforme: cioè della necessità di allineare la “costituzione materiale” dei Ventisette su un nuovo set di parametri, non solo economico-finanziari.
È il massimo che forse oggi si può chiedere a una sorta di “Premier europeo”: ma la stessa figura ibrida del numero uno di Bruxelles è il simbolo di un’Europa “qui e non ancora”, in mezzo al guardo, se non avviata a un declino inarrestabile. Ma a un capo dell’Esecutivo non si può chiedere recitare il ruolo propulsivo di un Parlamento che sta per essere rinnovato. Esattamente come non si può pretendere che un’Europa istituzionale e regolamentare viva a prescindere da quella “umana”: sociale ed economica. Neppure l’euro – l’acquisizione più recente e collaudata di quasi settant’anni dai Trattati di Roma – è nato per inerzia tecnocratica: i Trattati di Maastricht sono stati il risultato storico visibile di una presa di coscienza europea all’indomani della caduta del Muro, con un’immediata forza attrattiva verso quei Paesi che per mezzo secolo avevano dovuto rinunciare forzatamente alla loro identità europea.
Alla vigilia di una fase rifondativa dell’Unione – guardano in questa direzione anche i due studi commissionati da von der Leyen ai due ex Premier italiani Enrico Letta e Mario Draghi – è assolutamente necessario che l’Europa ritrovi la sua energia sussidiaria nei confronti di se stessa. I cittadini-elettori lo meritano e forse è già sufficiente interpellarli e coinvolgerli. Ci sono ancora due settimane di campagna elettorale, ma saranno seguiti da cinque anni: che andranno utilizzati al meglio per riscrivere regole e prendere decisioni che non si potranno sbagliare.
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