Quando la settimana scorsa Sunak si è voltato e ha aperto la porta del numero 10 di Downing Street, per tornare alla sua residenza ufficiale, era fradicio. Aveva appena annunciato per strada la convocazione delle elezioni. Lo aveva fatto, com’è consuetudine per i Primi ministri britannici, davanti al leggio utilizzato nelle grandi occasioni. E pioveva molto a Londra. Nel Regno Unito piove sempre o sta per piovere sempre. Ma da quattro anni piove diversamente.
Il Regno Unito ha lasciato l’Ue, con il sostegno solamente di metà della popolazione, perseguendo il sogno di migliorare la propria economia e guadagnare libertà. Da tre anni i britannici possono bere vino in bottiglie da mezzo litro grazie alla deregolamentazione e possono competere sul mercato finanziario con meno restrizioni. È ancora presto per valutare le conseguenze della Brexit, ma sappiamo già che il Regno Unito ha dovuto reinventare la propria politica commerciale senza ottenere vantaggi evidenti. Ci sono meno investimenti. Ci sono problemi a trovare lavoratori in alcuni settori e minore crescita.
La “exit” non è più di moda. Molti dei partiti identitari o sovranisti, che corrono alle elezioni, hanno smesso di chiedere l’uscita del proprio Paese dall’Ue. Le Pen, ad esempio, non chiede più l’uscita della Francia.
L’antieuropeismo, più o meno radicale, è spesso il risultato di aver ceduto a una vecchia tentazione. L’Ue viene rifiutata, viene criticata per non essere un riferimento valido, perché si sogna un mondo che non è mai esistito e non esisterà mai. L’Ue, infatti, viene incolpata di averci portato via un mondo in cui potremmo essere felici quando in realtà quel mondo non è altro che una sublimazione delle nostre frustrazioni. È un modo molto semplice per arrendersi. L’antieuropeismo è alimentato dalla difesa di uno Stato-nazione cui si attribuisce un’istanza morale che, in realtà, non è mai esistita, né esisterà. Una struttura politica, qualunque essa sia, ha un ruolo molto più modesto: non genera riferimenti che diano senso alla vita delle persone. E se pretende di farlo diventa qualcosa di pericoloso. Accusare l’Ue di aver tradito la tradizione europea, di antioccidentalismo, di globalismo, dimostra che questa tradizione è concepita come qualcosa di morto, chiuso in se stesso, qualcosa che ha bisogno della difesa e della protezione del potere per restare in vita.
Occorre ripeterlo: nel bilancio dell’ultima legislatura europea ci sono elementi negativi. Il Patto migratorio è arrivato tardi e male. I pagamenti ai Paesi terzi per accogliere i migranti espulsi sono vergognosi. La politica agraria non è stata flessibile. Ma ci sono motivi per essere orgogliosi di ciò che l’Ue ha fatto di fronte ad alcune sfide. Ad esempio, ciò che ha fatto per risolvere la crisi causata dalla pandemia, per rispondere all’invasione della Russia, per adattare le regole fiscali alle circostanze, per promuovere riforme nazionali, per cercare di introdurre controlli sull’Intelligenza artificiale, per difendere lo Stato di diritto.
C’è stata una prima risposta egoistica al Covid, ma poi è arrivata la collaborazione. I consistenti aiuti ai Paesi del sud, in particolare alla Spagna e all’Italia, hanno corretto gli errori commessi nel 2008 e hanno consentito alla crisi economica di non avere conseguenze disastrose.
Dobbiamo chiedere all’Ue molto di più e molto di meno. Dobbiamo chiedere quel che Agostino chiese all’Impero Romano: pace e una ragionevole dose di sicurezza e benessere.
Nel continente piove meno che nel Regno Unito. Ma la pioggia è sempre pioggia.
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