A dieci giorni dal voto europeo la questione salariale affiora qua e là in un confronto politico fiacco sia in Italia che nell’intera Ue. Idem negli Usa, dove comunque il tema attende di prendere quota in agosto, in coincidenza con le due convention di lancio di Joe Biden e Donald Trump verso le presidenziali di novembre.
Su un punto il consenso è ampio su entrambe le sponde dell’Atlantico: i livelli retributivi sono bassi e l’inflazione – prolungata e non ancora domata – li ha resi ancora più “minimi” di quanto fossero già. Tanto che il confronto sul salario minimo legale è stato accantonato perfino negli Stati Uniti – dove pure Biden vi aveva dato centralità nella sua agenda 2020 – mentre in Italia il Pd ha mostrato di non credervi come mezzo di superamento correttivo del reddito (assistenziale) di cittadinanza di marca M5S.
Dal canto suo il Governo Meloni – nel pieno dell’emergenza inflazionistica – ha puntellato gli stipendi della Pubblica amministrazione, provvedendo nel contempo a sussidi straordinari in gran parte orientati ai salariati e alle loro famiglie. Ma al di là dell’opposizione al salario minimo legale (peraltro abbastanza coerente per una maggioranza di centrodestra), l’Esecutivo non ha aperto un tavolo effettivo sulla questione salariale: non certo incoraggiato da rapporti mai decollati con le parti sociali.
I salari (reali) non sono bassi e spesso in erosione solo in Italia (o non solo in alcuni settori o nelle zone più arretrate del Paese). Traguardando le retribuzioni attraverso il parametro del reddito disponibile pro-capite, una vasta parte della Francia piuttosto che alcuni land orientali della Germania non stanno meglio (al netto della maggior efficienza e qualità dei servizi pubblici a parità di prelievo fiscale, per le famiglie come per le imprese). Per non parlare di interi Paesi fra i Ventisette. Per questo lo stesso dibattito sul “cuneo fiscale” in Italia risulta datato e limitato.
Il documento forse più utile per affrontare la questione salariale resta il Rapporto sulla competitività Ue preparato dall’ex Premier italiano Mario Draghi. Se i livelli retributivi sono insoddisfacenti la ragione ultima – certamente in Italia – sta nel ristagno della produttività del lavoro: che la teoria economica identifica da sempre come gancio principale di salari e stipendi. Senza una “Industria 5.0” (in termini simbolici: fortemente innovativa in tutte le sue dimensioni) e una politica industriale coerente (decisa a livello europeo e declinata con forza nei livelli nazionali) la dinamica dei salari rischia di rimanere impantanata nella semplice contrattazione, con inevitabili derive conflittuali e rischi di contaminazione politica delle relazioni sindacali. “Più salario per tutti” impone il rilancio strutturale dell’industria: che deve aumentare in misura non ordinaria la sua stazza media e la sua capacità d’investimento in tecnologia e in capitale umano
Non per questo i sindacati – anche in una fase di difficoltà per tutti i corpi intermedi tradizionali – devono o possono rinunciare al loro ruolo negoziale e sbaglierebbero le forze imprenditoriali che ignorassero la pressione asimmetrica indotta dalla congiuntura inflazionistica ai redditi salariali. Questo – soprattutto – al termine di un trentennio abbondante di continua divaricazione socioeconomica. Commetterebbe un errore anche un Governo che – una volta fatti in Europa i suoi compiti a casa nella politica industriale – si sedesse a capotavola fra le parti sociali solo in funzione di mediatore tecnico: dimenticando la lunga e irrisolta emergenza sociopolitica delle diseguaglianze.
L’Italia, a differenza di Paesi come la Francia o la Germania, ha già sperimentato gli effetti di un successo populistico di M5S. La questione salariale si presenta come un vettore ideale per rilanciare anche la produttività della politica e lo stile di governo in un Paese che sta ospitando i summit del G7.
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