È inspiegabile come il dibattito sulla crisi che sta attraversando la sanità in Italia rimanga così sotto traccia rispetto a quello su premierato e autonomia differenziata.
È vero che socialità, alimentazione, clima ci rendono uno dei Paesi con una speranza di vita tra le più alte al mondo (83,2 anni in media, 81,1 anni per gli uomini, 85,2 anni per le donne) e dove si è recuperata quasi completamente la longevità pre-Covid. Tuttavia, la prospettiva non è rosea: la spesa dal 2010 al 2022 è passata da 105,398 miliardi di euro a 124,061 con una diminuzione netta in termini reali; l’inverno demografico, in atto da tempo, comporterà che ci saranno meno lavoratori per sostenere la spesa pubblica; il 37% in più di popolazione avrà nel 2040 gravi malattie e ci sanno un milione di ultranovantenni.
Non basta: esiste un enorme problema di disomogeneità territoriale. A Bolzano si vive in media 17 anni in più che in Calabra. Per ciò che riguarda i livelli minimi di assistenza (Lea), non raggiungono gli standard almeno 13 aree italiane. Esistono 21 sistemi sanitari con una sostenibilità economica del tutto diversa: ci sono regioni che sono endemicamente in deficit, persino commissariate, e altre totalmente virtuose. Anche sul piano della qualità le differenze sono marcate. Come dimostrano i dati 2023 che escono dal Piano nazionale esiti (Pne) dell’Agenas, esiste una fortissima eterogeneità intraregionale in termini di efficacia misurata, ad esempio, sulla mortalità entro 30 giorni dopo bypass aorto-coronarico, sulla proporzione di nuovi interventi di resezione entro 120 giorni da un intervento conservativo per tumore maligno della mammella. Per ciò che concerne l’efficienza, altrettanto eterogenea è la situazione intra-regionale ad esempio a riguardo della tempestività di accesso alla terapia intensiva e della proporzione di interventi chirurgici entro 48 ore dopo la frattura del femore e, nella maggior parte dei casi, lo standard è al di sotto delle linee guida nazionali.
Singolare è poi la situazione a riguardo dei parti cesarei. Recita il Pne: “Come già evidenziato nelle precedenti edizioni, si rileva anche nel 2022 una variabilità intra-regionale, indice di una sottovalutazione dei benefici e dei rischi connessi alle diverse modalità di parto”. Si osserva come la gran parte delle regioni del Sud siano caratterizzate da “un alto ricorso al taglio cesareo primario”.
Si nota poi una fortissima eterogeneità interna alle regioni, a segnalare l’esistenza di ospedali eccellenti e meno performanti nelle diverse aree e province di una stessa regione: la naturale reazione è l’emigrazione temporanea delle persone verso le regioni in cui si trovano ospedali migliori, spesso collocati all’estremo opposto della penisola, per la cura di patologie gravi quali quelle oncologiche, cardiovascolari e ortopediche.
Tutto questo avviene mentre il sistema sanitario deve affrontare nella sua totalità il cambiamento epocale del riequilibrio delle cure tra ospedale e territorio di fronte al crescere di patologie croniche di lungo periodo.
Anche su questo punto è impressionante l’eterogeneità in termini di ospedalizzazioni evitabili inter e intra regionali rispetto ad esempio a patologie come lo scompenso cardiaco, la broncopneumopatia cronica ostruttiva, le infezioni del tratto urinario, il diabete, il TSO psichiatrico. Invece poco si vede ancora sulla predisposizione di luoghi di cura per patologie croniche come, come case di cura territoriali, ospedali riabilitativi, hospice, centri diagnostici che sono necessari per un’utenza sempre più complessa e differenziata.
L’alternativa non è immaginare un ritorno al centralismo sanitario abolendo l’autonomia regionale, ma trovare luoghi, come potrebbe essere una Camera delle autonomie locali, che decida e abbia autorevolezza in campo sanitario. Occorre ascoltare, correggere, sanzionare le regioni che non funzionano e assicurare un giusto equilibrio tra ciò che può essere differenziato tra regione e regione, e ciò che deve essere deciso a livello nazionale e locale. È urgente rimediare al danno arrecato dall’abolizione delle Province che potrebbero più utilmente essere un riferimento per i Comuni, aggregandoli per funzioni e prossimità.
In una situazione come quella descritta, come si può continuare a ignorare il fatto che il problema del nostro Paese non è né l’autonomia differenziata, né il rafforzamento del potere esecutivo?
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