È più che probabile che l’astensionismo continuerà a farla da padrone anche alle prossime elezioni europee. I sondaggi di questi ultimi mesi dicono che in Italia andrà a votare tra il 45% e il 48% degli aventi diritto. All’ultima tornata europea del 2019 la media dei votanti era stata del 50,95%, con il Belgio primo in classifica con l’89% e la Slovacchia fanalino di coda con il 23%. L’Italia si era piazzata al nono posto con il 56,10%.
Ma non sarebbe realistico pensare che la gente non si interessi di politica. Ognuno ha la sua da dire. Se non altro perché sempre più incombente è la paura. Paura della guerra, paura della povertà, paura delle malattie. Da chi ci governa, o da chi si candida a farlo, vorremmo essere tutelati. E allora ai bordi del ring, quello su cui quotidianamente si affrontano i politici di turno, noi facciamo il tifo. Giornali, telegiornali e talk show, in tempo reale ci convocano a questi match che, diciamolo, il più delle volte non offrono il contributo di un sano e utile confronto politico, ma piuttosto lo spettacolo di una rissosità deprimente. Rimaniamo di volta in volta colpiti da chi pare rappresentare meglio i nostri interessi o difenderci dalla paura. Ma in fondo questa politica non ci appassiona.
È pur vero che non sono tante le cose che ci appassionano. Siamo diventati un po’ scettici, spesso delusi, il più delle volte alla ricerca di rassicurazioni e tranquillità. Ma non del tutto incapaci di provare ancora un’emozione, l’impeto di un desiderio, lo struggimento per una mancanza. Vedere la sofferenza ed essere impotenti ci fa male. Abbracciare un figlio che ci guarda con gratitudine ci allarga il cuore. Perché abbiamo ancora un cuore capace di vibrare e di desiderare. Un cuore che sa riconoscere ciò che ci appassiona e per cui potremmo anche spendere energie. Ma per una politica come quella che sempre più spesso vediamo andare in scena non siamo disposti a molto, tanti forse neanche a votare.
Proprio in questi giorni abbiamo fatto memoria del 25 aprile, il giorno che emblematicamente commemora la liberazione dell’Italia dalla dittatura. Al di là di faziose e strumentali contrapposizioni, il 25 aprile ricordiamo con gratitudine le migliaia di persone, uomini, donne, ragazzi, comunisti e cattolici, laici e sacerdoti, che hanno speso la vita per riguadagnare la libertà. Non è un caso che l’Europa, quell’Europa di cui stiamo per rinnovare le rappresentanze parlamentari, sia nata per custodire e far crescere nella pace quell’esperienza di libertà riconquistata. Come aveva ricordato papa Francesco nel giugno dello scorso anno rivolgendosi ai membri del Ppe, “ci vuole un’anima, valori alti e una visione politica alta”. E aveva aggiunto che l’Europa unita è nata “per generare uno spazio dove si potesse vivere in libertà, giustizia e pace”.
Oggi forse è difficile vedere realizzata quella politica alta di cui parla papa Francesco. Ma è sicuramente triste e inutile volgersi nostalgicamente indietro a rincorrere un tempo diverso da quello in cui viviamo. È più affascinante provare ad “abitare il nostro tempo” come recita il titolo di un agile e al tempo stesso intenso libro appena uscito per la Rizzoli. Si tratta di un dialogo a tre voci, un filosofo canadese Charles Taylor, un teologo spagnolo Julián Carrón e un arcivescovo anglicano Rowan Williams. Un dialogo carico di passione e di stima per la realtà, nel quale gli interlocutori si confrontano anche sul tema della libertà, nel comune convincimento che proprio “il contesto nel quale siamo immersi, caratterizzato da una specie di scomposizione dell’umano, porta alla luce l’irriducibilità ultima della persona”(Carrón) e ci induce “a pensare a questo cambiamento non come alla perdita di un meraviglioso modo di esistere, ma piuttosto come al guadagno di un modo di esistere molto più sano, in cui possiamo di nuovo tornare al ruolo centrale della libertà” (Taylor).
Quella politica alta, quella che c’entra col cuore, quella che può appassionarci, ha a che fare proprio con la libertà. Perché in fondo c’è solo una cosa capace di muovere gli uomini, la libertà di rispondere ai propri bisogni e ai propri desideri. La società si impoverisce quando questi bisogni e questi desideri si appiattiscono o ancor peggio vengono ridotti. È la grande omologazione di cui aveva parlato Pasolini. Oggi a 50 anni di distanza da quegli Scritti corsari, in tempi di Intelligenza artificiale, la questione assume caratteri ancor più drammatici. Perché troppe sono le cose che abbiamo a portata di mano, a portata di touch. Siamo ubriacati dalla quantità di informazioni e di relazioni virtuali cui possiamo accedere. Non ci resta più il tempo per domandarci di che cosa abbiamo veramente bisogno per essere soddisfatti. È come se stesse venendo meno il tempo per desiderare. In fondo anche l’IA ha sì aspetti minacciosi, ma pensiamo che se i Governi faranno norme che tutelino il nostro lavoro, se ci saranno buone regole, tutto potrà funzionare.
Stiamo rischiando di insegnare ai più giovani che scopo della vita è performare (come si dice oggi) e non realizzare il proprio destino, compiere il proprio desiderio di pienezza. La conseguenza evidente è che sono sempre più ansiosi e sempre meno realizzati. Ma se accade che un dolore o una gioia, un fatto o uno sguardo, per un istante riescano a bucare quell’appiattimento a cui rischiamo di abituarci, allora la partita si riapre. E può succedere che ci accorgiamo ancora di saper desiderare. Può succedere che ci torni la voglia di una vita più piena. Può addirittura accadere che lo sguardo sui nostri figli cambi, che cresca la passione per la loro libertà prima che per il loro successo. Può accadere che la parola libertà ritrovi un accento che allarga il cuore. Perché intravvediamo che proprio questo è il punto su cui l’IA non ci raggiungerà mai. E questo è il punto su cui con responsabilità possiamo metterci a costruire generando esperienze di educazione, relazioni, storie di solidarietà. E se si tratta di difendere la libertà, allora anche la politica c’entra con il cuore.
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