G7 e Ue: il rischio di un arrocco

Vista la situazione politica, il cinquantesimo G7 della storia si presenta come un fortino assediato su tutti i suoi lati principali

Da domani i sette leader occidentali si ritroveranno in Italia per il summit annuale del G7. Il Presidente francese Emmanuel Macron e il Cancelliere tedesco Olaf Scholz sono reduci da pesanti sconfitte elettorali al voto europeo (a differenza di Giorgia Meloni, la Premier italiana che ospita il vertice). Macron è stato costretto a chiamare subito elezioni anticipate: come del resto Rishi Sunak, il Premier conservatore britannico che ha giocato la carta “snap” con l’analogo obiettivo di contenere una prevedibile sconfitta fra sei mesi. Non sembra stare molto meglio il “capotavola” del G7: il Presidente americano Joe Biden, che sta marciando in salita alla ricerca di una difficile rielezione in novembre.

Il cinquantesimo G7 della storia si presenta dunque come un fortino assediato su tutti i suoi lati principali. Ed è un clima in cui sembra inevitabile la spinta/tentazione verso forme di arrocco, di “serrate le fila”. I segnali sono già visibili: Macron sta chiaramente impostando la sua campagna elettorale di centrista liberale come referendum ultimativo fra se stesso (leader “democratico”) e la pressione del partito lepenista, dipinto come minaccia “nera” alla “civiltà liberale europea”. Idem in Germania: Scholz ha subito respinto con fermezza ogni ipotesi di voto anticipato, proponendosi come ultima trincea contro svariati “barbari alle porte” (l’estrema destra xenofoba interna ma anche la Cdu-Csu non chiusa alle destre non estremiste a sostegno di un Esecutivo von der Leyen 2 a Bruxelles).

Entrambe le posizioni si basano su una premessa implicita: non può esistere Europa se non nelle mani dei tradizionali partiti “europeisti”, incardinati sulle eurocrazie. Quindi: gli elettori francesi e tedeschi hanno sbagliato a sfiduciare Macron e Scholz inseguendo “la destra nera”; potranno opportunamente – doverosamente – “correggersi” in luglio a Parigi o fra un anno a Berlino. L’analisi pare tuttavia azzardata sul piano delle dinamiche elettorali perché discutibile nel leggere l’attualità socioeconomica dell’Ue.

In Francia, in particolare, è dalla prima elezione di Macron – ormai sette anni fa – che porzioni crescenti della popolazione mandano all’Eliseo segnali di insoddisfazione sempre più forte: prima per una politica di transizione verde troppo radicale e punitiva per i ceti deboli, poi per un’azzardata riforma delle pensioni e infine perché Parigi ha abbracciato il bellicismo Nato sul fronte ucraino. Se può essere individuato un elemento di sintesi in opposizioni montanti in sé diverse (a Macron e a Biden, a Scholz e a Sunak) non è certo un’improvvisa epidemia di populismo neo-fascista: quanto piuttosto un netto e progressivo peggioramento delle condizioni di vita di decine di milioni di europei. Anzitutto a causa di un’inflazione “da guerra”, aggiuntasi in sequenza alla recessione da Covid e quindi a un’escalation di tensioni politico-economiche con la Cina. Il tutto in assenza – certamente nell’Ue – di veri rilanci di politica industriale e del lavoro e nel perdurare di una gestione puramente inerziale di parametri finanziari tecnocratici e invecchiati.

I gilet gialli francesi non sono eversori neofascisti e il loro voto a Rassemblement National è effetto, non causa, della crisi francese (europea). I trattori tedeschi od olandesi non sono “camicie brune” del ventunesimo secolo: sono una quota dei milioni di europei “forgotten”, gettati sul lastrico da una tecnocrazia Ue autonominatasi “unica Europa” e postasi sempre più fuori dal controllo delle istituzioni democratiche (le paradossali opposizioni a Ursula von der Leyen – vincente al voto di domenica – nascono da questo nodo di fondo: come candidata a un secondo mandato come Presidente della commissione Ue, si sta già muovendo come investita direttamente da un mandato popolare, non più come garante di Bruxelles su indicazione di 27 capi di governo).

È di fronte a questi scenari – sfidanti ma non inattesi – che la leadership occidentale è entrata in crisi inequivocabile: provocando una polarizzazione politica interna ai singoli Paesi, ma chiaramente leggibile anche su scala internazionale. È questa crisi di leadership e di strategia che Ue, Usa e G7 dovrebbero affrontare: anche se per Scholz e Macron è forse già troppo tardi, mentre a Biden resta probabilmente il tempo minimo per decisioni in extremis.

La guerra in Ucraina va conclusa e la ricostruzione va avviata anche come “drive” della ripresa Ue. La transizione energetica va ripensata in chiave di sicurezza europea (senza dimenticare la strategia climatica). Il confronto con la Cina può non degradare in una nuova “Guerra fredda (o calda attorno a Taiwan)” distruggendo la globalizzazione, nei suoi (notevoli) profili positivi.

Se invece a Borgo Egnazia – dal Sud italiano/europeo proiettato nella cerniera geopolitica mediterranea – riecheggeranno ennesimi appelli a “vittorie definitive”, è verosimile aumenti il rischio di esiti contrari: di sconfitte per i leader in trincea, ma purtroppo anche per i Paesi da loro governati.

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