MINNEAPOLIS – Che il fertility rate, il tasso di fertilità, sia in drammatico ribasso in tutto il mondo occidentale è un fatto di cui siamo tutti più o meno consapevoli. Persino negli Stati Uniti, un tempo “fertilissimi”, anno dopo anno la natalità perde colpi a suon di punti percentuali. E la vita invecchia.
Qui in Nord America non siamo ancora ai livelli italiani, but we’re getting there, ci stiamo arrivando. E dire che una delle (tante) cose che mi avevano sorpreso nella mia personale (e non ancora conclusa) scoperta dell’America era stato il fatto che, nonostante la maternità non avesse praticamente nessuna forma di tutela, di bambini ce n’erano in abbondanza. Niente astensione obbligatoria pre e post partum, niente riduzione d’orario, niente tutela salariale… eppure bambini sì i e tanti, soprattutto nel cuore del Paese, dove aver figli era semplicemente un riflesso della passione per la vita e del desiderio di conquistare la terra, il mondo (se non l’infinito).
Adesso non solo non è più così, ma, come mi è capitato di leggere l’altro giorno su Time magazine, oltre a quello dei “non prolifici” ci sarebbe un popolo di genitori pentiti. Pentiti di cosa? Di aver messo al mondo qualcuno. Come dice uno di costoro intervistato da Time, “amo i miei bambini. Semplicemente non amo la scelta che ho fatto”. Secondo R.O. Kwan, autrice della ricerca e del pezzo su Time, giovane autrice di notevole successo, si tratta di un “costoro” nell’ordine di grandezza del 10-15%. In altre parole, una fetta significativa di tutti i genitori dei cosiddetti Paesi “sviluppati” sarebbero pentiti di aver avuto figli. Naturalmente l’America si pone all’avanguardia di questi Paesi “sviluppati”. Per quanto riguarda lei, R.O. Kwon, la questione non si pone neanche perché di mettere al mondo figli non ci pensa neanche.
“Paesi sviluppati”… La prima domanda che sorge spontanea è in cosa consista questo “sviluppo”. Evidentemente oltre alle tante cose belle e utili che abbiamo “sviluppato” ce ne sono anche un tot che abbiamo smarrito lungo la strada. Ma l’autrice della ricerca non sembra particolarmente preoccupata di quanto possiamo aver perso. Sembra piuttosto inviperita nei confronti di una cultura che quando si parla di genitori e figli vorrebbe solo un certo tipo di narrativa, storie di “gioia pura e incondizionata”, mentre l’esperienza ci mostra (ci mostrerebbe secondo la Kwan) che per tanti la genitorialità è fonte di dolore, soprattutto quando il pensiero va a quello che la propria vita avrebbe potuto essere se non ci fossero stati di mezzo i figli.
Ecco, questo è il punto. Non è un pentimento legato all’aver portato creature innocenti in un mondo brutto e cattivo, pieno di guerre e malvagità, incapace di offrire una vita degna di essere vissuta, quanto il pensiero di quel che la venuta al mondo dei figli mi ha impedito di essere e diventare. Il male che mi sono fatto da solo, gli infiniti e ingiusti limiti che mi sono posto diventando genitore e rinunciando a chissà quali sogni. Ma, ahimè, è successo, i figli ci sono e non ci resta che la terapia.
Ed ecco allora pronto ad avanzare l’esercito dei terapeuti (in questo si che siamo “sviluppati”) che ci aiuterà anzitutto a non farci sentire “soli e sbagliati” – promesso! Perché il “pentimento genitoriale” – ci diranno – è esperienza di tanti, un’esperienza che si va diffondendo e soprattutto è un sentimento legittimo e non c’è da vergognarsene. Ma come siamo messi?
Mi viene in mente la mia mamma, la volta in cui – ci raccontò che eravamo ormai grandi – in un momento di grande fatica con i figli piccoli le sfuggì di istinto una mezza frase… “Accidenti alla volta che…”. Non so quante volte la mamma avrà chiesto perdono a Dio per quel momento di debolezza, per quella mezza frase pesante come un macigno. Pesante e non vera. Perché nel cuore di quella giovane figlia di contadini – come in quello di tutti, oggi come ieri – era scolpita la verità delle cose. E lei, nella sua semplicità, lo sapeva.
Speriamo la scopra anche la Kwan.
God Bless America!
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