È la novantatreesima maturità della storia d’Italia. Ma i riti e le tappe delle giornate saranno quelle di sempre: le tracce dei temi, le polemiche per gli autori e gli argomenti proposti, le statistiche su quanti hanno svolto il tema storico e quanti si siano invece buttati su altro, la seconda prova dei licei o degli istituti tecnici e l’esame dei professionali. Poi i voti degli scritti, i calendari degli orali, i festeggiamenti per quello che la stampa definisce “l’oralone” e che sancisce la fine di tutte le fatiche. Infine i verdetti, i temuti voti che rendono sempre di più l’esame di Stato una classifica, una graduatoria stantia superata da test universitari anticipati, da carriere già scritte e da destini tanto fulgidi quanto improvvisati. Che cosa resta di una maturità? Che cosa resta di questo esame?
È difficile rispondere in modo oggettivo ad una domanda così soggettiva, eppure l’esame di Stato conclusivo del secondo ciclo di studi non è altro che un inizio. È dove comincia tutto. I tanti studenti che stamattina si saranno svegliati di buon ora, che avranno pensato a come vestirsi o si saranno addobbati come sempre e come capita, non possono neppure immaginare quale puntata della loro vita stanno interpretando.
Molti di loro si pensano alla fine di un viaggio, in tanti si sentiranno dire che sono “alla fine di un percorso”, ma la verità è che il mondo comincia un istante dopo in cui è finito l’orale della maturità. Comincia quando devi salutare i compagni di una vita, il professore che odi o quello che hai sempre amato, quando devi fare i conti che quei corridoi che tanto hai maledetto o che tanto ti hanno protetto, adesso non ci saranno più. Non sei più studente della tua scuola. E dire chi sei diventerà più difficile, dire a chi appartieni comincerà ad essere sempre più urgente.
L’estate della maturità è chiamata l’estate della libertà, ma in fondo tutti sappiamo – e ci rifiutiamo di raccontare – che è l’estate dei primi passi, di un tragitto incerto di cui nessuno sa nulla, ma che, volenti o nolenti, inizia. In tanti pensano che la vera domanda dell’esistenza sia quella sul perché le cose finiscano. La maturità ci fa capire che la questione decisiva è perché cominciano. Perché iniziamo ad amare quella donna o quell’uomo se la morte – qualunque morte – ce lo porterà via? Perché mettiamo al mondo figli se dovremo andarcene? Perché ci conosciamo, ci incontriamo, perché diventiamo amici, ascoltiamo musica, facciamo l’amore, se poi tutto deve essere lasciato? Chi siamo noi che osiamo iniziare in un mondo dove tutto finisce?
È questo il cuore dell’universo, il mistero dell’uomo, il dramma di un bacio o di una segreta lacrima versata davanti alle stelle. È questo che noi siamo: un inizio che sfida la specie, un cominciamento che turba la scienza. Noi siamo mistero. Ed è in forza di questo mistero che siamo, della storia che abbiamo, di tutto quello che abbiamo pianto, attraversato, combattuto, vissuto, che ci sediamo tra i banchi di ogni scuola a fare il nostro esame. Oggi si chiama maturità, domani si chiamerà matrimonio, figli, lavoro, tumore. Le cose cominciano perché ciascuno di noi possa toccare con mano che non si risolve tutto nelle coordinate di quel che già sappiamo. L’esistenza non è uno spazio digitale in cui contatti tutti ma non incontri nessuno. Vivere non è assaggiare tutti i piatti che sono in tavola per morire di fame. L’esistenza, la vita, il cammino, sono una grande chiamata. Una chiamata al desiderio, una chiamata alla verità, una chiamata alla giustizia e alla bellezza.
Mentre oggi a Gaza si muore e a Kiev si combatte, una campanella suona per mezzo milione di ragazzi. E in quella campanella c’è il segreto di tutto. Qualcosa di inatteso che, senza averci avvisato, ci chiama a cominciare. O, forse sarebbe meglio dire, ci chiama a sperare. Buon esame di maturità, ragazzi.
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