Alcamo e Cdo: quel che è cominciato è fiorito

Un io senza compagnia è condannato a cercare soddisfazione in se stesso e difficilmente questo può consentire di generare qualcosa che risponda a ciò che serve alla comunità

Dopo 38 anni dalla nascita della Cdo per aiutare gli amici di Alcamo a vendere il loro vino, proprio lì si scopre il tanto che è cresciuto un po’ dappertutto. Quando uno dice io non da solo ma facendo con amici uniti dall’ideale si diventa veramente utili a sé stessi e alla compagnia umana.

Il 14-15 giugno scorso si è tenuta ad Alcamo (TP) la ormai tradizionale due giorni di lavoro che vede impegnati i referenti locali e il direttivo della Cdo Opere Sociali per condividere le esperienze fatte, per individuare le necessità delle opere sociali e per avviare la programmazione del prossimo anno sociale.

Di questi tempi, può apparire poco pratico per un’associazione che riunisce alcune centinaia imprese sociali e realtà associative grandi e piccole disseminate sull’intero territorio nazionale trovarsi in presenza in una piccola località “periferica”, in realtà ci sono diversi buoni motivi che ci hanno condotto qui.

Innanzitutto, lo dico fuori di retorica e senza alcun sentimentalismo, qui ad Alcamo è dove tutto è cominciato, almeno per noi della Compagnia delle Opere. Da qui venne la sollecitazione da parte del Servo di Dio Luigi Giussani ad alcuni amici, circa la necessità di andare fino in fondo in un’amicizia “operativa” che arrivasse a concretizzarsi in un aiuto reciproco, anche nel lavoro e nell’impresa. Da allora, si era nei primi anni ’80, di passi ne sono stati fatti molti, anche ad Alcamo. Sono nate opere, costruite dal basso, per rispondere a una duplice esigenza, quella di lavorare e quella di accogliere il bisogno altrui. Così siamo arrivati oggi a “Rossa Sera”, una cooperativa che unisce alla vocazione sociale espressa nell’accoglienza della fragilità un importante lavoro di valorizzazione di eccellenze del territorio, dai grani antichi al melograno, dall’orticultura alla coltivazione di ulivi.

È stato proprio il sito della cooperativa, nella campagna tra le provincie di Trapani e Palermo, a ospitare il nostro lavoro. Si potrebbe pensare che sarebbe stato più efficiente fare tutto ciò in un centro congressi piuttosto che qui, ma da tempo abbiamo imparato che trovarsi insieme dove le opere operano è un’espressione molto concreta di questa nostra compagnia: venire a vedere, questo è il nostro primo modo di partecipare.

Per questo invitiamo anche altri a vedere. Questa volta è stata con noi la viceministro alle Politiche sociali, Maria Teresa Bellucci. Con lei abbiamo affrontato la prima sessione del nostro lavoro: un momento di condivisione delle tante iniziative nelle diverse aree in cui le opere associate si impegnano. Ci sono stati interventi relativi alla povertà alimentare ed educativa, all’aiuto alle famiglie, all’inclusione lavorativa, al carcere, alle dipendenze. In tutte queste testimonianze è riecheggiato l’invito che tanti anni fa San Giovanni Paolo II rivolse a tutti noi al Meeting di Rimini: “La civiltà dell’amore! Per non agonizzare, per non spegnersi nell’egoismo sfrenato, nell’insensibilità cieca al dolore degli altri. Fratelli e sorelle, costruite senza stancarvi mai questa civiltà! È la consegna che oggi vi lascio. Lavorate per questo, pregate per questo, soffrite per questo!”.

Questa civiltà dell’amore, che ci propose di San Giovanni Paolo II, si ritrova nel tentativo delle nostre opere di andare incontro all’uomo, nei suoi bisogni e nelle sue fragilità, tendenzialmente in tutto il mondo. Così abbiamo avuto la possibilità di ripercorrere i tanti incontri e percorsi avuti con altre opere sociali, alcune originate dalla nostra stessa storia, altre figlie di storie diverse, soprattutto in Sud America. Questo è stato reso possibile anche dalla testimonianza che dal Brasile è venuta circa le “opere gemelle”, un progetto che da quasi dieci anni ci muove a condividere il metodo di lavoro con un gruppo di realtà sociali italiane ed estere, non con l’intento di spiegare come devono essere fatte le cose (tentazione sempre presente in chi si crede arrivato), ma piuttosto di aprirci vicendevolmente alle domande sul perché e il percome del nostro fare, fino alla declinazione di metodo che comporta.

Questa volta erano con noi anche due studenti universitari di scienze dell’educazione, Luigi e Letizia. Ormai da un po’ di tempo abbiamo avviato un cammino con giovani desiderosi di lavorare in ambito sociale ed educativo, da un lato per rispondere a un’esigenza di migliore conoscenza di cosa significhi davvero lavorare in quest’ambito, dall’altro la necessità di incontrare chi – oggi – manifesti un desiderio a riguardo. Nel suo intervento è stata proprio Letizia a raccontarci del suo desiderio, che oggi spesso si scontra con condizioni che non facilitano il suo perseguirlo: dal grave problema delle risorse assai più scarse di quanto sarebbe necessario per affrontare con successo la sempre maggiore fragilità, che non riguarda solo l’utenza delle opere ma anche chi vi lavora, fino al garantire la sostenibilità dell’opera anche sul fronte del suo capitale umano. In tutto ciò quello che però si è messo in evidenza è l’importanza di mettere a fuoco e sostenere il desiderio che muove, fino a comprendere la dimensione vocazionale di tutti noi.

Lavorare così, vedendo e condividendo, ci ha permesso di cogliere in modo molto concreto il senso di una conduzione corresponsabile della nostra compagnia. Una responsabilità reciproca che, pur partendo da ciò che costituisce il principale punto di interesse di ciascuna opera, non si ferma lì, ma si coinvolge perché tutto ci interessa e il nostro desiderio è che “tutto possa esistere!”, come recita un altro slogan di Cdo. Il nostro metodo non è quello della lobby, ma del “fare con”: ascolto e dialogo per poter portare il nostro contributo al bene di tutti. La nostra esperienza è che l’io non è espressione di un individuo, pur con la sua genialità, ma di una persona cioè di qualcuno che è in nesso, in rapporto e da tale rapporto nasce la sua azione. Un io senza compagnia è condannato a cercare soddisfazione in se stesso e difficilmente questo può tenere nel tempo e consentire di generare qualcosa che risponda a ciò che serve alla comunità, al contrario una compagnia che accoglie soggetti diversi, ciascuno portatore di un valore che non tiene per sé ma mette a fattor comune, è un luogo che fa crescere chi vi partecipa e – insieme – quelli a cui ci rivolgiamo.

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