L’autonomia differenziata non è sussidiarietà. La legge sull’autonomia, promulgata questa settimana dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, codifica le modalità con cui le Regioni, liberamente, potranno chiedere e ottenere di gestire in proprio alcune delle materie di competenza statale o “concorrenti” (tra cui: tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, esclusa quella professionale; tutela della salute; protezione civile; governo del territorio).
È vero che il problema della sovrapposizione della competenza, su alcune materie, di Stato e Regioni debba essere risolto, ma in questo momento storico appare molto più urgente pensare a “oliare” e a rendere più efficiente il sistema istituzionale del Paese anziché frammentarlo, e capire, ad esempio, come tutelare un welfare equo e sostenibile, visto che piano piano lo stiamo perdendo.
Per questo non serve un arretramento del potere centrale, ma un suo salto di qualità. Che è proprio ciò che richiama il principio di sussidiarietà.
Il principio costituzionale della sussidiarietà ha un obiettivo molto semplice: garantire la migliore risposta possibile ai bisogni delle persone, partendo dal presupposto che il primo a dover essere ascoltato in merito e ad agire è il più direttamente interessato dal bisogno. Gli altri attori devono intervenire in “sussidio” quando il soggetto del bisogno non è in grado di dare risposta autonomamente.
La sussidiarietà è come il dito con la Luna. La Luna è la risposta al bisogno. Senza la Luna, la sussidiarietà-dito rimane come un vigile che dirige il traffico delle competenze, senza curarsi che la risposta al bisogno giunga a destinazione. Fuor di metafora, la cultura della sussidiarietà (perché è di una mentalità e di una competenza di cui si ha soprattutto bisogno) cerca di garantire la migliore risposta ai bisogni delle persone attraverso una relazione tra tutti i livelli di governo (in una società complessa servono tutti i livelli).
Il trasferimento di competenze al livello delle regioni non garantisce di per sé le migliori risposte per i cittadini, obiettivo della sussidiarietà.
Che cosa poi vada considerato come “migliore risposta”, nel nostro Paese, non è ancora stato fissato. I LEP, livelli essenziali delle prestazioni, ovvero i servizi economici e sociali che lo Stato deve garantire su tutto il territorio nazionale in alcuni settori fondamentali, non hanno mai visto la luce.
Il governo ha affidato a una commissione di tecnici la loro definizione, che deve avvenire entro due anni. Questa commissione, presieduta dalla Lega, stabilirà i LEP con un atto amministrativo e all’insaputa del Parlamento. Quali debbano essere i servizi minimi che lo Stato deve garantire dovrebbero essere decisi da un’ampia maggioranza.
Finanziare i LEP richiede una spesa mai quantificata e stimata da alcuni in diverse decine di miliardi di euro. Denaro di cui lo Stato in questo momento non dispone.
È quindi lecito pensare oggi in Italia a una cosiddetta riforma come l’autonomia differenziata?
Esiste da sempre una disuguaglianza di sviluppo e di capacità di spesa e di intervento amministrativo tra Nord e Sud d’Italia.
Se si confronta l’incidenza della povertà assoluta nelle aree geografiche italiane con la capacità di spesa dei Comuni, emerge che al Sud c’è una quota decisamente più alta di nuclei familiari in povertà assoluta. È nel Mezzogiorno che emerge l’area della povertà e il disagio degli adulti. La spesa pro-capite per il welfare territoriale è nel Sud in media di 72 euro che corrisponde circa alla metà della media nazionale italiana che è di 142 euro.
Se si confronta poi il livello regionale, il divario diventa ancora più marcato e impietoso. Si passa da Regioni come la Calabria e la Campania, con rispettivamente 37 e 66 euro pro-capite, ai 592 euro della Provincia Autonoma di Bolzano e ai 429 euro di quella di Trento.
Autorevoli istituzioni come la Banca d’Italia e l’Ufficio Parlamentare di bilancio hanno espresso la preoccupazione che con l’attuazione della legge sull’autonomia differenziata il rischio di un ulteriore aumento del divario sia reale. Inoltre potrebbe rendere meno competitivo il Paese, moltiplicando o complicando la burocrazia.
La disuguaglianza tra diverse aree va colmata, a beneficio di tutto il Paese. Non può essere risolta precisando le deleghe da attribuire a livello locale. I venti anni trascorsi dalla riforma costituzionale del 2001 mostrano che materie come l’istruzione, la sanità, il welfare, le infrastrutture richiedono ben altro: investimento in formazione, lavoro, qualità della PA.
Chi è impegnato sul territorio, nel terzo settore, negli ambiti amministrativi, nel volontariato, conosce bene le disuguaglianze presenti e i divari già oggi profondi. Il rischio è che questi divari possano solo aumentare, portando il paese a un regionalismo delle diseguaglianze.
L’unico periodo recente in cui la distanza economica tra Nord e Sud si è ridotta è stato quando ci fu una gestione centralizzata degli investimenti in favore del Sud, fatta con la Cassa del Mezzogiorno, da persone competenti e che avevano grandi ideali.
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