Che gli uomini si mettano a costruire è la cosa più naturale, più umana, più rispondente alla nostra natura, che si possa immaginare. Abbiamo bisogni, desideri, esigenze, mancanze. Niente appare più adeguato che assumersi la responsabilità di “tirare su” pezzi di storia, rapporti, esperienze, luoghi, dove lavorare per migliorare le condizioni di vita di tutti, dove i bisogni e le diseguaglianze siano affrontati, dove la pace sia sinceramente ricercata, dove lo sviluppo tecnologico e il diritto al lavoro convergano per un progresso umano reale. E invece troppo spesso lo scetticismo prevale, ci assale la paura di assumerci compiti e responsabilità che vadano oltre lo stretto necessario. Rischiamo talora di sentirci inadeguati addirittura a tirare su i nostri figli. Anche per questo cerchiamo gli esperti. E di fronte a un mondo che ci sembra sempre più insicuro e minaccioso, invochiamo regole e norme che ci facciano sentire più al sicuro.
Viene da chiederci con Eliot “Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? “. E nel frattempo, è ancora Eliot a ricordarcelo, cerchiamo di “evadere dal buio esterno e interiore sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono”. Cioè di essere uomo. Perché l’unica vera bontà è essere fino in fondo ciò per cui siamo fatti. Di qualunque cosa, diciamo che è buona quando esprime al massimo le potenzialità della sua natura. Così è della nostra umanità. Siamo buoni quando la nostra autocoscienza è viva, quando viviamo nella consapevolezza di chi siamo. Quando in mezzo a tutto ciò che vorrebbe farci addormentare, in mezzo alla paura, all’ansia, a quel” vivere che taglia le gambe”, allo scetticismo, permettiamo alla realtà di risvegliarci. Attraverso uno sguardo, una persona, un fatto, un bisogno. Qualcosa che riaccende il cuore e ci costringe a riconoscere che siamo di più del grigiore a cui ci stiamo rassegnando.
Siamo definiti da un bisogno di senso che, se riconosciuto, ci consente di non “perdere la vita” e di guadagnare la “saggezza”. Perché l’unica alternativa a quei sistemi perfetti di cui parla Eliot (e la storia ci ha insegnato quale sia l’esito inevitabilmente autoritario di tali sistemi!) è la responsabilità esercitata da uomini imperfetti, bisognosi, seriamente impegnati con la propria domanda di significato. Come scriveva don Giussani a proposito delle implicazioni “sociali” delle domande ultime che l’uomo si pone: “L’attrattiva del problema sociale è proprio data non dalla logica del problema sociale come tale, ma da quell’urgenza, da quella passione o sete di giustizia che non troverà mai metri e misure esaurienti, mai”.
E la storia ce lo ha mostrato tante volte . Quella passione e quella sete hanno fatto la differenza. Lo abbiamo visto in quei momenti tragici in cui, in mezzo alla devastazione e alla distruzione, ci sono stati uomini che hanno avuto il coraggio e l’energia di costruire. Come quando la disfatta politica, militare e umana dell’Impero romano, culminata con le invasioni barbariche, aveva lasciato solo macerie, ma su di esse un popolo aveva cominciato a ritrovarsi intorno a dei monaci, aveva prosciugato le paludi ed edificato le case. O come quando, in tempi più recenti, i nostri nonni hanno ricostruito l’Italia distrutta dalla Secondo guerra mondiale. O come quando, in tempi ancor più recenti, terremoti e alluvioni hanno messo a dura prova la sopravvivenza di tante nostre popolazioni e mobilitato quella “buona” umanità capace di costruire muri, case, rapporti.
Da qualche giorno è in libreria Il costruttore di Antonio Polito (ed. Mondadori). Un saggio che l’autore ha voluto dedicare ad Alcide De Gasperi a 70 anni dalla morte. Un uomo – scrive Polito – che “si presentò come un ‘costruttore’, che si proponeva di rimettere in piedi un Paese materialmente, economicamente, moralmente a pezzi. Un uomo che aveva visto che il grande pericolo era ‘l’unione delle forze per la demolizione che rende impossibile l’unione per la costruzione'”.
Dalla vita di questo uomo Polito trae cinque lezioni per i politici di oggi. E con grande laicità e acuta curiosità, indagando sulle ragioni che avevano mosso De Gasperi, arriva a riconoscere che “la fede, vissuta con l’ardore di un protocristiano, rendeva De Gasperi diverso”. Di questa diversità gli italiani prima o poi si accorsero e da essa furono attratti e commossi. Lo documentano le ali di folla che accompagnarono il treno che trasportava la sua salma da Borgo Valsugana a Roma. Avere la fede è un dono e una risorsa. Oggi non meno che ai tempi di San Benedetto o di De Gasperi. Oggi che l’urgenza del costruire è così forte, c’è bisogno di uomini che sappiano spendersi per costruire “insieme”. E per farlo con chi è diverso, per etnia, fede, cultura, i cristiani possono mettere in campo quella certezza che aveva animato anche don Giussani e che gli proveniva dall’esperienza viva del cristianesimo “un amore alla verità che è presente, fosse anche per un frammento, in chiunque”.
La sfida oggi è veramente sulla costruzione. Perché la distruzione è sempre più dilagante, quella delle città e quella dell’umano. Ma quei frammenti di verità sono presenti. E spesso sono più che frammenti. Sono storie, rapporti, operosità condivise, identità all’opera. Gente che si muove per costruire e che abbiamo sempre più bisogno di vedere e di incontrare. In fondo anche da queste imminenti elezioni europee cerchiamo “un’Europa che – come ha detto papa Francesco – valorizzi le diverse culture che la compongono”, dove la politica sia al servizio della libertà e della pace. Per un’Europa così, anche andare a votare è un piccolo ma reale gesto di costruzione.
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