225mila messaggi in meno di due anni, tutti rivolti a Giulia Cecchettin. È questo dato che gli investigatori hanno tratto dal cellulare di Filippo Turetta e che tinge ulteriormente di inquietante la tragica morte della ragazza, assassinata dall’ex fidanzato lo scorso 11 novembre. Un caso che ha ipnotizzato il Paese, portando alla luce dinamiche in cui tanti – ma soprattutto tante – si sono identificati. E che, ancora una volta, svela di avere le sue radici ultime nel male che alberga nel cuore di ogni essere umano. Quel male che sorge dalla paura di perdere un bene di cui l’Io di ciascuno sente di aver diritto.
Gli uomini vengono al mondo con un’evidenza che non ha bisogno di pensieri, quella per cui il dono della vita coincide con il dono della felicità. Poi quest’evidenza inizia ad essere messa in crisi dalla scoperta che non tutto è “mio”, che esiste anche un “non-mio”. Fa impressione come i bambini affermino con forza ciò che ritengono loro proprietà e siano poco disposti a riconoscere altrui diritti o beni in comune: è come se il semplice fatto di dover ammettere che esista qualcosa di cui non dispongo, qualcosa che non possiedo direttamente, mettesse in dubbio il mio diritto ad essere felice, la mia necessità di essere realizzato. Il potere, fin dalla tenera età, non è altro che il tranquillante del desiderio: più gestisco, più controllo, più domino, e meno dovrò faticare per percorrere tutta la strada che da me porta a quello che me non è, all’Altro.
Amiamo così per non fare la fatica quotidiana di incontrarci, di conoscerci, di specchiarci l’uno nel percorso dell’altro. Amiamo così perché è la violenza del peccato che ci ha insegnato, fin dall’origine, che occorre prendere senza aspettare, che occorre fare nostro ciò che invece dovrebbe essere lasciato libero. Non possiamo accettare la distanza che c’è tra noi e nostro marito o nostra moglie – e per questo andiamo in crisi –, non possiamo apprezzare lo spazio che intercorre tra noi e i nostri figli o i nostri genitori – e per questo rubiamo loro spazi di libertà o pretendiamo loro dimostrazioni di affetto.
In fondo molti temono il sacrificio di stare al proprio posto, di interfacciarsi con la vita dal particolare punto della storia che gli è stato assegnato. Da genitori vorremmo proteggere i nostri figli o risparmiare loro quel dolore che è necessario per crescere, da amici vorremmo poter pilotare noi la libertà di chi ci circonda per portarla nel porto che abbiamo deciso essere l’attracco migliore per l’esistenza, da innamorati non sopportiamo di non sapere che cosa faccia l’altro, con chi si veda, chi abbia incontrato, a chi scriva.
Il fatto è, e questa cosa certamente vale anche per Filippo Turetta, che noi ci stimiamo talmente poco che pensiamo che chiunque ci possa rimpiazzare. Come amanti, come mariti, come mogli, come amici, come madri e come padri. Su tutti noi grava l’incertezza del valore che, in definitiva, è sempre l’incertezza dell’amore. È qui che si vede se la fede è diventata un fatto vitale o è soltanto un elemento residuale del vivere: se ci rende consapevoli di essere oggetto di un amore vero, infinito, radicale e definitivo. Solo chi sperimenta quel bene può amare con libertà. Perché non esiste libertà vera se non nell’amore.
Molti guardano a Filippo Turetta come al mostro che non sapeva amare, che amava in modo tossico e che ha violato la vita di Giulia in nome di un amore orribile. Tutte cose vere. Ma nessuno guarda a Turetta per quello che non si vede, e che certamente – al netto di ogni patologia non ancora diagnosticata – avrebbe fatto la differenza. Ossia l’amore che gli è mancato. Ma non l’amore del papà o della mamma (facile in questi casi assegnare subito le colpe, chi può sapere davvero come stanno le cose?), bensì l’amore come coscienza di sé, come consapevolezza di essere amato.
Questo a lui non è arrivato. Nonostante tutti gli studi fatti, tutto il catechismo, tutto lo sport, tutto il volontariato, le ore di educazione civica, quelle di educazione all’affettività, gli amici. Niente, quella consapevolezza non gli è pervenuta, non ha costituito la parte più intima di sé. Ed è qui che si gioca il vero dramma del nostro tempo, la vera questione che nessuno ha il coraggio di porre: l’impotenza dell’uomo dinnanzi alla libertà e alla coscienza dell’altro. Che cosa possiamo fare, noi, per le persone che amiamo? Che cosa possiamo fare, davvero, per i nostri amici e i nostri figli?
Se chi scrive rispondesse a questi interrogativi, finirebbe per tradire il percorso che spetta a ognuno di noi. Sarebbe l’ennesimo modo per evitare a ciascuno, fra tutti i cammini possibili, l’unico cammino davvero interessante, quello della libertà.
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