Perché un europeo, istruito e ragionevolmente informato, energico o stanco, sereno o arrabbiato, dovrebbe essere interessato alle elezioni? Perché dovrebbe esserlo all’inizio del XXI secolo? Non è una domanda a cui si può rispondere velocemente. Non si può rispondere con una formula o un enunciato che definisca un “buon democratico”.
Meno della metà dei giovani che possono votare si è preoccupata di sapere chi si candida, cosa promette e cosa verrà deciso alle elezioni europee. E perché avrebbero dovuto farlo? Se hanno genitori e nonni filoeuropei, gli ricorderanno la grande storia della ricostruzione post-bellica. Se hanno genitori e nonni scettici avranno sentito parlare dell’Europa dei burocrati, dell’Europa dei mercanti, dell’Europa che si è dimenticata della sua anima. Sono tutte storie vecchie, analisi che toccano poco e muovono ancor meno. Quando parliamo tanto di radici, quando rivendichiamo un passato glorioso, molto probabilmente stiamo elogiando un albero già secco. Le radici senza frutto sono morte.
Mentre si esalta un passato che non ha presente e si critica l’età oscura in cui viviamo, la vita politica si riduce a una questione identitaria. Chi ha paura del cambiamento climatico vota i verdi, chi ha paura dei migranti vota i sovranisti. I cattolici votano chi tutela la famiglia e/o i poveri (dipende dal loro orientamento), chi aiuta le loro opere caritative e culturali. I dipendenti pubblici votano chi promette di non ridurre la spesa sociale; gli imprenditori chi favorisce il libero mercato; gli anziani chi garantisce le loro pensioni; gli elettori di sinistra chi promette diritti per le minoranze. I criteri astratti e universali si concretizzano nella difesa di ciò che si ritiene utile a tutelare il proprio gruppo.
Le conseguenze di votare in questo modo sono state spiegate da Mikel Azurmendi nel suo ultimo libro (“L’altro è un bene”): in una società problematica, per raggiungere la solidarietà tra gruppi (un “noi”) viene creato un sistema di simboli mascherando motivazioni e proiettando paure non riconosciute. Sotto la maschera degli ideali, il bene comune viene sostituito dal bene generale. «Nella nostra società il “bene generale” solitamente non corrisponde al bene comune. Piuttosto, di solito è concepito come il bene perseguito dal partito per cui voto», ha sottolineato il basco. Il bene comune è un’altra cosa: «è usare tutti i mezzi affinché il bene di tutti si traduca nel bene per tutti». Si tratta di fare in modo che «nella società fioriscano tutte le parti (le famiglie, i settori produttivi, educativi, artistici, scientifici, religiosi, politici, del tempo libero…)».
Non è una questione di cattive intenzioni. Il problema è che molti democratici sinceri, nei quali sopravvive ancora l’ideale, hanno ceduto alla tentazione di considerare come criterio di convivenza il trionfo del loro modo di concepire l’uomo e il mondo. L’impulso non è più l’affermazione della persona concreta, ma l’aspirazione a raggiungere un certo potere per “difendere” ed “estendere” un sistema di idee e valori (criteri per il voto). E così scompaiono l’interesse e la speranza, perché tutto si basa su un progetto astratto e in definitiva violento, separato dalla carne della vita.
Il voto diventa interessante e non violento se nasce dall’esperienza del fatto che «io appartengo al mondo con gli altri. Avere un volto implica essere uno accanto all’altro. L’altro ti umanizza quando fissa il suo sguardo nei tuoi occhi. E ti rendi conto di essere stato catturato. E quindi sei» (Azurmendi).
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