In queste settimane, per moltissimi sacerdoti, cade l’anniversario dell’ordinazione presbiterale. Anch’io mi sono ritrovato, con i miei compagni del 2008, per festeggiare il 7 giugno che, per una felice coincidenza, quest’anno era la solennità del Sacro Cuore di Gesù. A tavola, raccontandoci le nostre varie vicende, a un certo punto uno di noi ha detto: “In questi anni siamo cambiati, siamo maturati, si vede”. In effetti è la cosa più interessante che balza all’occhio quando ci vediamo. La nostra è una classe molto variegata, per le età, le provenienze, le storie… e ha continuato a custodire questa caratteristica. Alcuni di noi, in questi anni, sono partiti per la missione all’estero, altri vivono il sacerdozio in contesti “non tradizionali”, un amico è già andato in Paradiso… ma è evidente che siamo diventati uomini. Le spigolosità degli anni del seminario, le esasperazioni di alcune posizioni, le idee sulla Chiesa e sul mondo hanno lasciato il posto alla realtà “abitata da Cristo”, come ha sottolineato durante l’omelia di quel giorno un altro confratello.
Diventano sempre più vere le parole che Papa Francesco rivolse ai sacerdoti il Giovedì santo del 2023: “Lo Spirito del Signore è sopra di me. Ciascuno di noi può dirlo; e non è presunzione, è realtà, in quanto ogni cristiano, in particolare ogni sacerdote, può fare proprie le parole che seguono: ‘perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione’ (Is 61,1). Fratelli, senza merito, per pura grazia abbiamo ricevuto un’unzione che ci ha fatto padri e pastori nel Popolo santo di Dio”.
L’espressione “padri e pastori” che, spesso, si rischiava di usare come se fosse una poesia o una condizione astratta, adesso diventa carne e sangue. Ciascuno si sta accorgendo della bellezza della straordinaria iniziativa di Dio, che ha voluto accompagnare il suo popolo nella storia così. Non con regole, insegnamenti, sogni, rimpianti, controllori, esecutori… ma con “padri e pastori”.
Il modello di questa paternità lo possiamo scoprire nel rapporto di Cristo con il Padre, come sottolineò don Julián Carrón in occasione della scorsa Quaresima: “Come Gesù, vive la verità di sé? Perché nemmeno Gesù, nella sua umanità, ha voluto evitare di affrontare questo dramma. Anche Lui è stato portato nel deserto: ‘Lo Spirito sospinse Gesù nel deserto e rimase quaranta giorni, tentato da Satana’. Nelle tentazioni Gesù entra nel dramma dell’esistenza umana, ed è chiamato a decidere dove poggia tutta la sua persona, cosa ha a cuore Lui veramente! Cosa realmente conta nel portare avanti la sua vita e la sua missione. Gesù non resiste ad assecondare lo Spirito, non ha paura delle tentazioni, perché ogni occasione è buona per mostrare cosa conta per Lui. Ogni circostanza è un’occasione per dire che cosa abbiamo a cuore e, più siamo sfidati, più siamo costretti a rispondere che cosa abbiamo a cuore. E ogni volta vediamo che quello che realmente per Lui [Gesù] conta, è Suo Padre, l’attaccamento a Suo Padre. Proprio questa sua coscienza di Figlio lo rende in grado di smascherare la menzogna di qualsiasi altra attrattiva, alternativa al suo rapporto con il Padre. Per questo ‘Egli è il primo uomo con la coscienza adeguata e perfetta che tutto il suo contenuto di uomo è la presenza del Padre’. (L. Giussani, Dare la vita per l’opera di un Altro, Bur, Milano 2021, pag. 33)”.
Ogni giorno che passa ciascuno può verificare l’urgenza di muoversi così nella vita, attaccati all’essenziale, consapevoli che, quando i discorsi e le opinioni terminano, la grazia più grande che rimane è quella di continuare a rimanere uomini, incontrando “padri e pastori” con il Cuore di Cristo.
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