Anche l’esame di maturità 2024 è ormai archiviato. Un’ altra generazione di studenti lascia i banchi e parte per una nuova avventura, lavoro, percorsi di formazione, università. Ma proprio questi 526.317 studenti ammessi a sostenere quest’anno l’esame di maturità ci costringono a porci una domanda “cosa hanno avuto dalla scuola?”. Una domanda che mai dovremmo evitare, ma che quest’anno ci è accaduto di incontrare in maniera più clamorosa. E in verità è l’unica domanda che ha senso porsi alla fine del percorso scolastico.
La scuola che cosa ha dato a questi ragazzi? Quale consapevolezza dell’esperienza umana abbiamo contribuito a far crescere in loro? Quali loro talenti abbiamo favorito che scoprissero? Quale stima per il lavoro fatto da ognuno di loro hanno incontrato nel nostro sguardo? Stiamo interrogandoci a valle di un esame, non dimentichiamolo, il cui esito è in generale scontato, stando almeno ai dati degli anni passati che hanno visto, tanto nel 2022 quanto nel 2023, il 99,8% di promossi, e l’esperienza di questa sessione non dà alcun segnale in senso contrario. Un esame quindi che non “prevede” bocciati e che pertanto potrebbe veramente segnalarsi come una bella occasione per valorizzare il lavoro personalmente fatto da ogni studente. Ma la realtà ben di rado ha risposto a questo auspicio.
Qualche giorno fa, su queste stesse pagine, un caro collega sempre attento e appassionato ai suoi studenti, raccontando con occhio disincantato lo svolgimento di alcuni colloqui di maturità, così commentava: “Neanche l’ultima ora dell’ultimo giorno dell’ultimo anno è il momento opportuno perché si sveli qualcosa di personale. Tutto è prestabilito”. E questi ragazzi il più delle volte sono usciti delusi per una valorizzazione di sé non sperimentata. Una delusione che prescinde dal voto finale, il cui interesse pratico peraltro è oggi scemato, stanti le attuali modalità dell’accesso sia al mondo del lavoro che all’università.
I maturati di quest’anno, non dimentichiamolo, rappresentano una generazione del tutto particolare. Sono gli studenti che dopo pochi mesi dall’inizio delle Superiori hanno visto la scuola chiudersi. Era il marzo del 2020 e loro hanno cominciato a stare a casa, anziché a scuola. A casa da soli anziché a scuola con i compagni. A casa davanti a un computer (per chi lo aveva a disposizione e per chi ha avuto insegnanti che da subito si sono fatti carico del loro bisogno) e non in un’aula. Poi l’anno successivo forse hanno ricominciato ad andare a scuola, ma inchiodati nei banchi, a giorni alternati, in mezzo a mille restrizioni e paure. Finalmente al loro terzo anno di percorso superiore, cessata l’emergenza Covid, la loro vita scolastica ha cominciato ad avviarsi verso una normalizzazione. Ma in mezzo a un mare di regole, di restrizioni, di deficit da colmare, di livelli di apprendimento da recuperare.
È di questi giorni la presentazione del Rapporto Invalsi relativo alle competenze fondamentali dei nostri studenti. Da esso emerge che, pur tra i progressi realizzati in questi ultimi due anni, siamo tuttora lontani dai livelli pre-Covid (ad esempio, se nel 2019 gli studenti che uscivano dalla scuola con un livello di competenza adeguato in italiano erano il 64%, oggi sono il 56%). E così è arrivata alla Maturità questa generazione di studenti sempre più stressati, disamorati, delusi. Non poteva essere che così. Ce li siamo ritrovati in crisi, ansiosi, impauriti, spesso arrabbiati, non di rado violenti e trasgressivi. E noi sempre più incapaci a bucare quella crosta di disagio per andare a incontrare un brandello di libertà vera da cui ripartire. Abbiamo preferito inseguire regole, norme, sanzioni. Abbiamo invocato la presenza di psicologi.
Eppure sappiamo bene che la libertà dell’altro si muove solo se è sfidata. Sappiamo per esperienza che quando la nostra esigenza di giustizia, di verità, di bellezza è provocata dalla realtà, possiamo diventare indomabili nel cercare una risposta. Non è stato forse così quando ci siamo innamorati o quando qualche grande contraddizione o dolore ci è venuto addosso? Non è stato così quando abbiamo abbracciato un grande ideale o affrontato un rischio? Questi giovani che ci sembrano talora così fragili, forse hanno solo bisogno di essere guardati con stima verso il loro cuore e verso la loro libertà. Questa libertà che, come dice don Giussani, è “la possibilità, la capacità, la responsabilità di compiersi, cioè di raggiungere il proprio destino”. E il cammino al proprio destino è in assoluto la cosa più misteriosa e imprevedibile che esista. Un cammino lastricato di rischio e di libertà che possiamo solo permetterci di adorare come si adora il Mistero. E se qualcosa possiamo pensare di insegnare è solo l’amore per la libertà pura (come la definiva don Giussani), perché, come aveva scritto Bernanos, “la peggiore minaccia per la libertà non sta nel lasciarsela togliere – perché chi se l’è lasciata togliere può sempre riconquistarla -, ma nel disimparare ad amarla”.
Saremo capaci di fare scuola, di insegnare, di innalzare i livelli delle competenze, di potenziare soft skills, di formare persone adeguate alle attuali sfide del lavoro e della società, educando giovani amanti della libertà perché amati nella loro libertà? Non dimentichiamoci poi che anche la sfida tra l’uomo e I’IA non passa attraverso le regole (che pur servono) o attraverso la gara tra chi è più performante (che pure è inevitabile), ma attraverso quell’evento misterioso che è un io umano libero e fragile.
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