I LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) sono quelle prestazioni e servizi (elencati con dettaglio nel Dpcm 12 gen. 2017) che dovrebbero rispondere ai principi di dignità della persona, bisogno di salute, equità nell’accesso, qualità delle cure, appropriatezza, ed economicità, e avendo questi attributi sono considerati essenziali. Per esempio: i ricoveri ospedalieri, un elenco definito di prestazioni ambulatoriali e di farmaci, un insieme di attività di prevenzione collettiva e sanità pubblica, l’emergenza sanitaria territoriale (118), l’assistenza protesica, l’assistenza termale, l’assistenza sociosanitaria domiciliare e territoriale, residenziale e semiresidenziale e così via. Per questa loro essenzialità lo Stato ogni anno definisce la quota di risorse che servirebbero per erogare detti servizi, con l’aggiunta di una quota di partecipazione da parte dei cittadini (ticket).

Sono ormai molti anni che in sanità i LEA sono in vigore e la loro anzianità dovrebbe almeno suggerire l’idea che il concetto di essenzialità di per sé andrebbe sottoposto a un’approfondita discussione a un livello alto, discussione vieppiù necessaria proprio adesso che si sta muovendo il motore dell’autonomia differenziata (a cui la sanità ha molto da insegnare). Purtroppo non è così: all’orizzonte non c’è una discussione in materia, ma ci si è solo preoccupati (per carità, ne diamo merito) di ridefinire la metodologia con cui misurare a livello di regioni se i LEA sono o non sono stati erogati. Tecnicamente si chiama Nuovo Sistema di Garanzia (NSG), ed è stato introdotto con il DM 12 marzo 2019: da pochi giorni il ministero della Salute ha messo a disposizione i risultati della valutazione riferita all’anno 2022, con dati anche sul 2021 e sul 2020 (Lispi L., e coll: Monitoraggio dei LEA attraverso il Nuovo Sistema di Garanzia – Relazione 2022. Ministero della Salute, 2024).

Non si entrerà nel merito della complessa architettura metodologica messa in piedi, composta da ben 88 indicatori (16 per la prevenzione collettiva e sanità pubblica; 33 per l’assistenza distrettuale; 24 per l’assistenza ospedaliera; 4 indicatori di contesto per la stima del bisogno sanitario; 1 indicatore di equità sociale; 10 indicatori per il monitoraggio e la valutazione dei percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali – PDTA) che diventano 22 nel cosiddetto sistema CORE che viene utilizzato per la valutazione finale (chi è interessato trova tutto scritto nella citata relazione, compresi i dettagli relativi ai singoli indicatori), ma i risultati dell’anno 2022 meritano qualche riflessione e qualche commento.

Ricordando che sono tre i macro livelli individualmente valutati (prevenzione, assistenza distrettuale, assistenza ospedaliera) complessivamente nell’anno 2022 le Regioni Piemonte, Lombardia, Provincia di Trento, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Puglia e Basilicata hanno registrato un punteggio superiore a 60 (soglia di sufficienza) in tutte le macro-aree; la Regione Valle d’Aosta segna un punteggio inferiore alla soglia in tutte le macro-aree; le Regioni Calabria, Sicilia e Sardegna presentano punteggi inferiori alla sufficienza nelle due macro-aree della prevenzione e dell’assistenza distrettuale; infine, la Provincia di Bolzano e le Regioni Abruzzo e Molise ottengono un punteggio insufficiente nell’area della prevenzione, mentre la Regione Campania riporta un punteggio insufficiente nell’area distrettuale. In sostanza 13 promosse e 8 bocciate: non certo un bel risultato, se vogliamo esprimere una prima grossolana valutazione, giudizio che diventa ancora peggiore se consideriamo che nel 2021 le bocciate erano state 7 e nel 2019 erano state 6.

Il NSG è stato sperimentato nel triennio 2017-2019 ed è entrato in vigore nel 2020, ma se consideriamo anche la metodologia di valutazione precedente (la cosiddetta “griglia LEA”) si scopre che le regioni cosiddette “inadempienti”, cioè quelle che (stando alla metodologia valutativa adottata) non erogano i livelli “essenziali”, sono quasi sempre le stesse, il che fa sorgere evidentemente tante domande. Le valutazioni numeriche (che chi scrive vede con favore anche se non sempre condivide le metodologie adottate) sono feroci e non lasciano scampo: promosso o bocciato (ed entrando nei dettagli si possono apprezzare anche le “materie” dove la performance è stata sufficiente o insufficiente), ma non spiegano cosa vi sia all’origine della promozione o della bocciatura.

Secondo la valutazione numerica, l’area ospedaliera è quella dove le regioni hanno funzionato meglio quanto a erogazione dei LEA, ma se si guardano i risultati si va dai 63,78 della Calabria e 67,54 del Molise ai 93,50 dell’Emilia Romagna ed ai 98,35 di Trento (100 è il punteggio massimo), con il sud (e qualche regione del centro) che presenta valori decisamente inferiori a quelli del centro-nord (Valle d’Aosta esclusa). Anche se le regioni sono state promosse ci si deve almeno chiedere se basta avere raggiunto la sufficienza (60) visto che si tratta di erogare livelli “essenziali” o se non sia necessario fare di più (ad esempio: se si alzasse il livello della sufficienza a 80/100 ben 11 regioni sarebbero bocciate).

L’area dove si va peggio è la prevenzione, con 7 regioni bocciate (<60), e 5 di queste addirittura gravemente insufficienti (<50), e tra quelle promosse solo 4 superano il punteggio di 90, il che significa non solo che c’è da fare per diventare almeno sufficienti nell’erogazione dei LEA, ma che c’è molto da fare per tutte le regioni se le attività di prevenzione devono essere essenziali.

Si può entrare in dettaglio nella valutazione delle singole aree e individuare specifici elementi (indicatori) che sono risultati sufficienti o insufficienti, ma per questo contributo basta e avanza quello che si è detto perché pone una questione di sostanza: giusti o sbagliati che siano gli attuali LEA (vedi sopra), e nell’ottica degli ancora da definire LEP dell’autonomia differenziata, non basta avere identificato cos’è essenziale (e la sanità l’ha già fatto da decenni), non basta individuare una metodologia di valutazione della erogazione dei servizi-prestazioni essenziali e applicarla tutti gli anni (e anche questo la sanità lo sta già facendo da decenni), ma occorre prevedere le conseguenze della valutazione (e questo la sanità è da decenni che purtroppo non lo fa) se non vogliamo che questa continui a essere, come di fatto lo è oggi, un puro esercizio di stile senza alcun effetto pratico sul servizio sanitario. Ci possiamo accontentare di sapere che da tempo quasi sempre le stesse regioni non erogano ciò che secondo la legge è da considerare “essenziale”? È possibile che, passato ogni anno il necessario (ma purtroppo breve) periodo in cui la notizia riempie i giornali e suscita soddisfazione (negli uni) e preoccupazione (negli altri), tutto rimanga come prima e ciò che dovrebbe essere essenziale per tutti i cittadini italiani in realtà non risulta accessibile per una buona parte di essi?

Se non fosse una battuta troppo abusata verrebbe da dire “elementare, Watson”, ma evidentemente in sanità (e non solo) non c’è nulla di elementare, e tantomeno è elementare cosa si deve fare (e chi lo deve fare: Governo? Regioni?) per ottenere ciò che per norma condivisa abbiamo considerato essenziale. Non sarà elementare ma è sicuramente essenziale e necessario: il non farlo rientra tra quelle pratiche che anche il buon senso (e non solo la morale) definirebbe “peccato mortale”.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI