Il ministro degli Esteri ucraino Bytro Kuleba è volato a Pechino, per discutere della ricostruzione del Paese. La fine della guerra con la Russia sembra avvicinarsi: soprattutto nell’ipotesi che Donald Trump torni Presidente negli Usa. Nell’immediato il cessate il fuoco – per armistizio negoziato o anche solo di fatto, in stile Corea – non sarebbe affatto sinonimo di pace, ma farebbe certamente risuonare lo start per la recovery di un’Ucraina semidistrutta. E – soprattutto se Trump rientrerà alla Casa Bianca – non appare improbabile che le armi tacciano anche a Gaza: dove l’intera Striscia abitata da due milioni di palestinesi è stata rasa al suolo.
Alla fine del suo primo mandato e ben prima delle tragedie del 7 ottobre e seguenti, Trump aveva immaginato in Medio Oriente una “Pace di Abramo” caratterizzata anzitutto da massicci investimenti nei Territori: per garantire sviluppo economico – prima ancora che autonomia politica e civile – a un popolo derelitto. Non è detto che la stessa strada non possa essere imboccata anche da Kamala Harris, se la presidenza toccherà a lei (Joe Biden non ha mai cancellato gli “Accordi di Abramo” siglati da Israele alla Casa Bianca con un gruppo di Paesi mediorientali, capeggiati dall’Arabia Saudita).
La ricostruzione ucraina – almeno fino a oggi – sembrava un compito affidato all’Ue: che aveva posto Kiev formalmente su un percorso di ingresso nell’Unione (in parallelo a una futura adesione alla Nato). La recovery post-bellica del Paese aggredito dalla Russia è stimata – sempre più per difetto – a dodici cifre in euro: più dei 750 miliardi del Recovery Plan post-Covid varato dalla stessa Ue. Una sorta di “piano Marshall” con l’Europa questa volta in posizione attiva: con la ricostruzione ucraina come traino privilegiato di un “NextGenerationEu” in cui la crisi geopolitica ha reso più stringenti gli obiettivi della transizione ecoenergetica e digitale, aggiungendovi quelli di un nuovo sistema di difesa.
Per ora, tuttavia, resta tutto sulla carta: in attesa che la nuova Commissione Ue si completi nei nomi e negli incarichi e soprattutto in attesa che l’Europa precisi le grandi scelte di fini e mezzi. All’interno di queste, naturalmente, è ricompresa anche ogni valutazione sulla politica finanziaria interna: quando l’eurocrazia (uscente dopo cinque anni) ha appena ripetuto il rito delle “bocciature” dei conti nazionali di Francia, Belgio, Italia e altri tre Paesi. Nel frattempo non solo il Governo ucraino ma anche i leader europei fanno la spola con Pechino: la Premier italiana Giorgia Meloni ha seguito di tre mesi il Cancelliere tedesco Olaf Scholz, mentre il Presidente francese Emmanuel Macron ha ospitato il leader cinese Xi a Parigi. Tutti hanno fretta evidente di scongelare le relazioni economiche con la Cina, la vera “sanzione” autoimposta dall’Europa dopo lo scoppio della crisi. Ma se è vero che la Grande Ricostruzione non attenderà i ritardatari (e per questi il treno perduto potrebbe rivelarsi fatale), senza il valore aggiunto dell’effetto-Ue gli impatti potrebbero rivelarsi demoltiplicati. Forse effimeri.
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