Qualche giorno fa Il Sussidiario ha presentato com’è cambiata la composizione per età della popolazione italiana dal termine della Seconda guerra mondiale ai giorni nostri, concludendo che lo scenario che prefigura il Paese che saremo è preoccupante: l’argomento merita qualche ulteriore considerazione.<
In buona sintesi, questi 70 anni di osservazione ci dicono: la popolazione è aumentata di un quarto sia nei maschi che nelle femmine, nelle età più giovani prevalgono gli uomini ma in quelle successive sono di più le donne, le classi anziane si sono notevolmente ampliate (l’attesa di vita alla nascita è passata da 65 a quasi 84 anni) e quelle più giovani sono diventate più scarse (da circa un milione di nati all’anno a meno di 400.000), il rapporto tra età lavorative ed età anziane è passato da 7-8 a 2,5 (persone in età lavorativa per ogni soggetto in età da pensione). Se a queste cifre aggiungiamo che negli ultimi 15 anni, Covid-19 a parte, abbiamo avuto ogni anno tra 600 e 650 mila decessi a fronte di un numero di nati nello stesso periodo che è passato da meno di 600 mila a meno di 400 mila il quadro demografico è completo.
Al di là di quelli che in questi numeri vorranno leggere preoccupazione ovvero soddisfazione, da una parte è sicuramente vero che cambiamenti così rilevanti in un arco di tempo così ristretto (meno della durata di vita media di una persona) sarebbe stato difficile prevederli, dall’altra è indubitabile che siamo di fronte a modificazioni strutturali fondamentali che producono conseguenze determinanti nella composizione della vita sociale.
Partiamo dagli anziani. La speranza di vita alla nascita in 70 anni è aumentata in maniera quasi lineare in entrambi i sessi (da 64 anni a 81 per gli uomini, da 67,5 anni a 85,2 per le donne): è facile ipotizzare che alla lunga la crescita della vita media non potrà continuare con questo ritmo, ma nei prossimi anni (quanti? probabilmente non pochi) l’allungamento della vita proseguirà (magari con minore velocità).
La platea degli anziani si allargherà, e con essa si allargherà anche il numero di quelli che vivranno più a lungo con acciacchi di vario tipo e con le necessità assistenziali che ne conseguiranno: serviranno più risorse per la sanità (a prescindere da chi le mette), serviranno servizi di assistenza di diverso tipo, servirà personale con adeguata preparazione, anche tipologie di strutture diverse (è notoria, ad esempio, la carenza di strutture residenziali per anziani al centro-sud del Paese). Ma soprattutto probabilmente occorrerà ridefinire il concetto di anziano (maggiore di quanti anni: 65, 70, 75, …?) e di conseguenza anche il momento della pensione o il ruolo dei pensionati, almeno di quelli senza particolari acciacchi (si vedano, ad esempio, le proposte già in circolo per il riutilizzo dei medici ultra settantenni).
Passiamo ai giovani. Già si è detto che 70 anni fa per ogni anziano c’erano 7-8 giovani che se ne facevano carico, mentre questo rapporto a oggi si situa attorno a 2,5 ed è in ulteriore decisa diminuzione. Assottigliandosi la quota dei produttori di reddito da lavoro le conseguenze sono elementari: o si aumenta il numeratore (il che oggi non è più possibile, se non passando attraverso l’immigrazione, regolare ovviamente), o si diminuisce il denominatore (ridefinendo chi sono gli anziani e le età cui accedere alla pensione), o ci saranno meno risorse pro-capite da distribuire (pensioni più basse). Per quanto siano in molti a sostenere che a breve ci sarà l’esplosione di nuovi virus (con le relative conseguenze), non sarebbe questa la strada da auspicare per riequilibrare il rapporto tra giovani e anziani.
Con gli anziani in costante aumento e non potendo più contare sull’aumento dei giovani, sicuramente per i prossimi anni la situazione demografica non presenta immediate soluzioni: esemplare in proposito è il caso dei medici del nostro Paese. Oggi, nel complesso, i medici in Italia non mancano (ne abbiamo di più rispetto alla media europea), anche se alcune discipline soffrono (emergenza-urgenza, medicina di base, …), ma una grande parte di loro andrà in pensione nel giro di un quinquennio; per converso le classi giovani (prevalentemente per errori di programmazione – numero chiuso a medicina – ma non solo: vedi oltre) sono vuote di medici che possano rimpiazzare numericamente i pensionandi: a breve, quindi, passeremo tra le nazioni che saranno in carenza di medici. Lo stesso problema, ma aggravato dal fatto che già adesso è in larga sofferenza, riguarda il personale infermieristico, per il quale alcune regioni si sono già indirizzate verso l’immigrazione dai Paesi dell’est e dal Sud America. E qui arriva l’ultima questione.
I nati. Dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1964 vi è stata una rapida crescita dei nati (da 800 mila a oltre 1 milione all’anno), seguita fino al 1987 da un’altrettanto rapida decrescita (fino a 550 mila). Sono seguiti 20 anni di sostanziale stabilità ma a partire dal 2008 è ripartito il crollo dei nati, arrivati a meno di 400 mila nel 2023. Questo andamento, per il quale lasciamo agli esperti l’identificazione delle cause, da una parte dice che la categoria dei giovani definita in precedenza non potrà essere arricchita dall’arrivo dei giovanissimi, in secondo luogo è decisamente minore la popolazione entro la quale (e torniamo, ad esempio, al caso dei medici) verranno scelte le diverse professioni, e da ultimo se non vogliamo che la situazione di carenza proceda all’infinito (avendo già perso i prossimi, almeno, venti anni) è necessario un drastico e repentino cambio di prospettiva verso la natalità e tutto ciò che la sostiene.
Servono un atteggiamento che apra a una nuova primavera demografica e una politica che la sostenga con strumenti efficaci, da un lato, ma dall’altro anche (e lo dico con dispiacere facendo parte della categoria) un ripensamento alla attuale struttura del welfare e dell’assistenza.
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