Di Cristo mi affascina la sua fragilità. A convincermi non sono i suoi poteri sovrumani: è la sua umanità ferita, i fiaschi, le paure, le carenze. Da giovanotto ha dovuto imparare tutto da Maria e Giuseppe: per entrare nel mondo scelse, tra tutte le forme di vita possibile, quella di famiglia. Non se ne andò in convento o in un seminario. Quando sta per morire, ha bisogno delle spalle di Simone di Cirene, si cala tra le braccia di Giuseppe d’Arimatea, è raccolto da Nicodemo.

Pensavo anch’io, come i suoi paesani, di conoscerlo: “So già tutto di Lui”. Poi, in galera, scopro che per anni ho frequentato il Vangelo come si guarda un film straniero senza sottotitoli: lo leggevo ma non sapeva di carne. Somigliava a una bella favola, ma non avevo incontrato Cristo: non è incontrare Cristo sentire citare il Vangelo, udire i pensieri che il Vangelo suggerisce a qualcuno: questo è assistere ad uno spettacolo che prende le mosse da uno spunto religioso. L’incontro è con un evento, che può essere anche una persona che ti parla, ma a colpirti non è la parola in sé quanto il cambiamento prodotto in colui che parla.

Resto comunque paesano dei paesani di Gesù: resta sempre in agguato l’illusione di conoscere una persona anche solo dopo un approccio superficiale, per il fatto di vivere nell’appartamento accanto. Così facendo, però, si rischia di precludersi dei rapporti approfonditi: non ci si accorge del pericolo di restare alla periferia della persona, senza giungere al cuore.

Le persone, però, non sono le cose: mentre, smontandola, possiamo conoscere tutti i pezzi che compongono un’auto (e loro non avranno più segreti!), le persone cambiano di continuo. “Lo so. So già tutto!” diciamo di qualcuno. Con l’aggravante che tante conoscenze finiscono per diventare “usa e getta”. È successo più o meno questo anche a Nazareth. Quello, per Cristo, fu un ritorno in patria difficile: siccome l’avevano visto crescere, non sono più in grado di accorgersi che è diventato diverso, che in lui sta sbocciando qualcosa che prima non c’era. È partito ch’era un pischello, diremmo: torna che è un Maestro riconosciuto.

A Nazareth, come a Cafarnao, succede che “molti, ascoltando, rimanevano stupiti”. Non sappiamo cos’abbia detto in sinagoga: ci viene riferito lo stupore che assale i paesani. Che invece di lasciarsi trascinare da questo suo magnetismo, cercano di governarlo. Cinque domande si porgono l’un l’altro. La prima: “Da dove gli vengono queste cose?” La seconda: “E che sapienza è quella che gli è stata data?” A metterli in stato d’agitazione è la sapienza: Costui parla con una grazia che chi l’ascolta viene colpiti nell’intelligenza. La terza: “E questi prodigi compiuti dalle sue mani?” La quarta: “Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo?” La quinta: “Le sue sorelle non stanno tra noi?”

Niente di male in queste domande se non fosse per quella presunzione di conoscerlo. Accolgono Gesù come la città accoglie il suo eroe con la medaglia d’oro: vogliono recuperare a proprio vantaggio un pezzo di gloria di questo figlio geniale. Sono sordi i paesani di Gesù e il sordo peggiore non è quello che non vuole sentire, ma quello che non ti fa manco aprir la bocca perché è convinto di sapere già tutto. E Gesù: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua” (cfr Mc 6,1-6). Certe volte sono proprio le persone più vicine a noi quelle che fanno più fatica a cambiare opinione su di noi.

La cosa più fastidiosa sarebbe che Dio fosse come l’uomo pensa di conoscerlo già. La cosa buffa è che certe volte uno ritrova la strada di casa soltanto se si smarrisce. E ogni volta deve scovare una strada nuova per ritornare: il Cielo, quando vuol farsi conoscere, lo fa attraverso i lampi. Solo l’inaspettato rende felici, ma ogni volta deve andare a picchiare duro contro molto di aspettato: “So già tutto, non occorre altro” diciamo spesso. E complichiamo la strada anche al buon Dio.

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