Soluzioni last minute per evitare la catastrofe negli Stati Uniti e in Francia. Nei giorni scorsi abbiamo visto come sia stato richiesto un intervento urgente affinché la democrazia, in due Paesi che sono di riferimento dalla fine del Settecento, non venisse colpita più intensamente dal populismo.
Il New York Times, dopo il disastro di Biden nel primo dibattito tv, preme affinché il Presidente non venga designato come candidato alla convention democratica di agosto. Sarebbe una decisione senza precedenti. Le élite democratiche delle “coste” si rendono ora conto della dimensione dell’emergenza. La stessa cosa è accaduta alla destra moderata francese (quasi inesistente), al macronismo sconfitto, alla sinistra di Mélenchon. Dopo decenni di ricorso ad “alleanze repubblicane” dell’ultimo minuto per difendere valori vuoti come l’orbita di un uomo con un occhio solo, hanno avuto solo il tempo di cercare un defibrillatore che mantenesse il battito cardiaco della Repubblica.
Ciò che sorprende è la povertà dell’analisi. Dal lato liberale, quella economica continua a essere utilizzata come unica chiave interpretativa. Come se tutto ciò che accade sulle due sponde dell’Atlantico fosse solo la conseguenza dell’onda d’urto della crisi del 2008. Se Le Pen ottiene ampi consensi e se l’intenzione di voto per Trump è al 49%, ciò sarebbe dovuto alla cattiva gestione della crisi finanziaria. Senza dubbio, le classi medie francesi e americane non godono più della prosperità precedente alla globalizzazione. L’uscita dalla crisi del 2008 e da quella del Covid non hanno ridotto le disuguaglianze. Ma i dati non sono male. Il tasso di disoccupazione in Francia è stato ridotto al 7%, una percentuale molto vicina alla piena occupazione. I pacchetti di stimoli di Biden hanno rafforzato i consumi delle famiglie. Ecco perché l’inflazione è diventata un problema durante il suo mandato.
Non è l’economia. O non è solo questione di economia. La crisi ha più a che fare con l’antropologia, con la cultura. Il grande fallimento di Macron era stato anticipato dal fatto che i suoi sermoni sui valori repubblicani, costruiti con la maestria dialettica che solo una certa élite francese possiede, non hanno toccato nessuno o quasi. I suoi lunghi discorsi sul destino della Francia e dell’Europa erano molto lontani dalla vita quotidiana degli elettori. Lo stesso Macron, che ama rimproverare i giovani che non rispettano la tradizione, probabilmente si interroga sulle ragioni che hanno portato a trasformare quella tradizione repubblicana in un oggetto inutile.
Questa mancanza di vitalità dei valori repubblicani spiega, in larga misura, il fallimento delle politiche di integrazione dei migranti. È un problema della terza e quarta generazione di discendenti di stranieri, arrivati negli anni 60 e 70. E non si tratta solo di una politica abitativa disastrosa. È vero che da decenni i migranti occupano i quartieri creati per i lavoratori francesi più svantaggiati. La politica dell’edilizia sociale, paradossalmente, ha creato dei ghetti. Ma l’origine del lungo periodo di confronto e frustrazione, che opera con le dinamiche di azione e reazione tra popolazione di origine migrante e popolazione di origine locale, è più profonda. Il migrante francese ha incontrato e continua a incontrare una cultura ermetica. In nome della laicità è costretto a privatizzare i suoi riferimenti religiosi e culturali.
Confronto e frustrazione. Questa è la chiave. La politica, la politica populista, diventa una terapia a buon mercato per sostituire ciò che la vita non fornisce. Non esiste democrazia stabile senza cittadini che godano di un minimo di soddisfazione affettiva.
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