Un cuore a misura di infinito

Dio si è fatto carne: è una iniziativa di Dio, non nostra. Vuol dire che la comunione con Dio è possibile, ed è qualcosa che ci cambia per sempre

Il Vangelo di questa domenica ci rivela che è bastata una frase, certamente dirompente, perché i Giudei iniziassero a mormorare contro Gesù: “Io sono il pane disceso dal cielo”. La decisione della Trinità di far “discendere dal cielo” il Figlio è sempre stata, in fondo in fondo, un pugno nello stomaco per gli uomini, abituati com’erano a immaginarsi i loro dei. Da quel momento in poi, infatti, si è sempre stati costretti a fare i conti, come disse Benedetto XVI, con il “grande mistero di Dio che è sceso dal suo Cielo per entrare nella nostra carne” e con il fatto che “in Gesù, Dio si è incarnato, è diventato uomo come noi, e così ci ha aperto la strada verso il suo Cielo, verso la comunione piena con Lui” (Udienza generale, 9 gennaio 2013).



Il faccia a faccia con Cristo ha messo l’uomo nella condizione di poter scoprire se stesso come mai gli era capitato, e di sperimentare una comunione con Lui che fosse di tutta la vita, fino a poterne mangiare il Corpo. Eppure mormoravano. Credevano di conoscerlo già, e che fosse impossibile che uno di loro potesse avere come origine addirittura il Cielo.



Si può intuire, però, che il vero stupore – che rasenta l’incredulità – in realtà riguardi proprio l’uomo, prima ancora che Dio. Pare impossibile che un uomo possa discendere da Dio, essere voluto da Lui, pensato da Lui, preferito da Lui. Se è qui con noi, se è uno di noi, se ne conosciamo storia e parenti, come può avere un’altra origine che non sia la terra, il mondo delle cose visibili, ciò che è disponibile al nostro possesso?

La mormorazione denuncia una mancanza di fede sul fatto che l’uomo possa provenire dal cuore di Dio, dal Cielo. Tutte le mormorazioni, del resto, hanno questa radice: fanno fuori l’altro facendone fuori l’origine. Gesù ha preso la nostra carne, invece, perché in noi vibrasse la nostalgia per il Cielo da cui siamo discesi, gettando le basi perché a vincere non fosse l’accontentarsi di un piccolo “cielo terreno” fatto da noi, dal nostro potere, dalle nostre cerchie, dai nostri intrallazzi. Il Figlio di Dio, venendo sulla terra, ha deciso di non avere luogo “dove posare il capo”, non ha scelto una patria terrena, ha rotto proprio le dinamiche del già saputo e dei soliti “astuti” sostegni umani. E per i suoi ha riservato il medesimo destino: uomini senza patria, questo sono i cristiani. Inassimilabili alla mentalità del mondo, in tutto e in tutti cercano i segni della Sua presenza e sorprendono in sé stessi il sintomo di quell’origine che condividono con il loro Signore: un cuore fatto a misura d’infinito.



Giacomo Leopardi lo descrisse bene in uno dei suoi testi: “il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole maravigliosa dei mondi, e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sí fatto universo; e sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire mancamento e vòto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana” (Zibaldone, LXVIII). Una natura umana abbracciata da un Cielo che intercetta il nostro desiderio persino nelle mormorazioni, e non si ferma, non si placa, si fa cibo, strada, vita.

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