La XXXIII olimpiade estiva di Parigi si è definitivamente conclusa. Le Olimpiadi future, già fissati dal comitato olimpico internazionale, sono i Giochi invernali del 2026 a Milano-Cortina, quelli del 2030 di nuovo in Francia – questa volta sulle Alpi – e quelli del 2034 negli Stati Uniti a Salt Lake City. I giochi estivi, invece, torneranno nel 2028 a Los Angeles e nel 2032 a Brisbane in Australia. Come si può chiaramente notare dal calendario, è diventata una rarità per l’Europa ospitare un’olimpiade estiva. Per questo, ogni volta che accade, è evidente che a essere in gioco non c’è soltanto il valore sportivo e organizzativo di un’edizione, quanto una serie di fattori che trascendono il Paese ospitante per coinvolgere, di fatto, l’intero continente.
Alla vigilia di queste intense settimane, l’ipotesi sul tavolo era che questi giochi potessero rappresentare il biglietto da visita di un’intera generazione, la cosiddetta Gen Z, che ufficialmente entrava in scena, col proprio patrimonio di idee e di valori, sul palco dell’età adulta. Gli avvenimenti hanno confermato questa eventualità e hanno permesso con alcune vicende – su tutte quella che ha avuto come protagonista il quarto posto di Benedetta Pilato – di registrare le fratture e le continuità generazionali rispetto non solo alla Gen X, ma anche ai cosiddetti “millennial”, coloro che oggi s’approssimano – o hanno appena superato – i quarant’anni.
Adesso che il sipario è calato e che, in pochi giorni, delle accese polemiche di queste due settimane sarà svanito anche l’eco (a dimostrazione di quanto fossero estranee all’eredità stessa dei Giochi), è possibile provare a mettere a fuoco un’ultima e decisiva questione nel tentativo di individuare e tratteggiare il ruolo dell’adulto rispetto a questa nuova generazione di giovani adulti. Supportano questo tentativo tre figure che abbiamo visto affacciarsi sulla prima linea dell’olimpiade appena conclusa: l’adulto assente, l’adulto dirigista e l’adulto padre.
L’adulto assente, spiace dirlo, è quello che si è reso protagonista della triste parabola di Tamberi, un atleta consegnato “mani e piedi” alla misura del proprio desiderio. Gimbo – così è affettuosamente chiamato da tutti – è parso gestire in solitaria la propria preparazione fisica, al punto da esasperare le condizioni del proprio corpo e subire lo smacco di veder svanire l’obiettivo di ripetere la gloriosa impresa di Tokyo. Certamente gli adulti erano molto presenti attorno a lui, e attorno a tutta la grande squadra dell’atletica e del nuoto, ma non sono state presenze incisive: non hanno restituito realtà a donne e uomini di 25-30-35 anni. Quando un adulto non restituisce realtà, senza giudicare moralmente nessuno, la sua figura sbiadisce, si scolora, si perde tra le mille emozioni di chi – per il solo fatto di essere ancora nell’agone – necessita di un punto dove guardare e di un’obiettiva visione di insieme che lo porti fuori dalle secche dei propri pensieri e lo restituisca alla vita – e alla competizione – più umano e più sano.
Claudia Mancinelli ci ha provato, con successo, nella ginnastica artistica, incarnando la figura dell’adulto duro e puntiglioso, dirigista. Senza dubbio un modello che, a breve termine, riscuote approvazione, ma che è certamente più complicato da supportare nel tempo. Lo sport non può essere soltanto sacrificio, ma richiede anche un orizzonte e una prospettiva umana che vada oltre la medaglia.
Lo sa bene Julio Velasco che, all’età di 72 anni, ha raccolto la guida tecnica delle ragazze della pallavolo con un approccio e una mentalità più da padre che da allenatore. “La pallavolo e il giornalismo – diceva il mister prima delle fasi finali dell’olimpiade – devono smettere di parlare dell’oro che manca (nella pallavolo), è deleterio per tutti. Si vede sempre quello che manca, è uno sport tutto italiano, l’erba del vicino è sempre più verde. È una filosofia di vita, ma l’oro olimpico quando arriverà, arriverà: ci sono tante squadre forti, si può vincere e si può perdere, l’importante è che i nervi non ci tradiscano. Sarà la prima medaglia, godiamoci questo, quello che abbiamo e non quello che non abbiamo, poi è chiaro che daremo tutto quello che abbiamo per fare di più”.
L’allenatore argentino, naturalizzato italiano, si è più preoccupato di far compagnia all’umanità delle ragazze che di imporre loro un serrato programma di allenamenti. Nella consapevolezza che se una persona sa dove va, allora il resto viene di conseguenza. Nessuno intende prodursi in un peana per Velasco, ma certamente la sua figura è riuscita a riassumere il tipo di adulto di cui i ragazzi – oggi alle olimpiadi e domani nella vita – hanno bisogno: un’autorità autorevole che non li giudichi, che sappia essere presente senza appesantire la loro strada, ma che – in quella presenza – sappia porre uno sguardo e un’umanità capace di incidere e di restituire ai ragazzi e alle ragazze una nuova consapevolezza.
Perché, paradossalmente, è facile vincere a Parigi, ma è molto più difficile fare tutto il cammino che ci porta a diventare veri e liberi. Capaci di assumere il proprio posto nel mondo e di esercitare molte parole che oggi appaiono fuori moda. Una su tutte è la nostra responsabilità. La vera medaglia da conquistare ogni giorno. Anche in un giorno anonimo di metà settembre.
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