Nella campagna elettorale per le presidenziali Usa, senza esclusione di colpi, il New York Times ha sparato una salva pesante: lanciando l’allarme-debito nel caso in cui Donald Trump tornasse alla Casa Bianca. Il teorema è spregiudicato: con una ricetta di politica economica in parte già delineata – e basata su tagli selettivi delle tasse – Trump-2 andrebbe a sbilanciare i conti federali. Soprattutto se l’economia Usa dovesse davvero rallentare o fermarsi (anche se questo sarebbe responsabilità dell’Amministrazione “dem” uscente). In sintesi, Washington rischierebbe di ritrovarsi come Londra nei cento giorni di Liz Truss, la cui piattaforma finanziaria ultra-liberista, due anni fa, mandò a gambe all’aria sterlina e titoli governativi britannici, spingendo la Premier subito fuori da Downing Street.
Per Kamala Harris, tuttavia, la bomba-debito appare pericolosa da maneggiare e ha parecchio l’aria di un fumogeno sparato per parare d’anticipo uno stesso attacco elettorale. È stata l’Amministrazione Biden, l’anno scorso, a battagliare al Congresso per rompere il tetto costituzionale al debito federale, che ha sfondato 31mila miliardi di dollari. La nuova candidata democratica, nel frattempo, non ha fornito alcun dettaglio sul suo programma economico, anche se è assai verosimile che i veli vengano tolti a partire da lunedì prossimo alla convention democratica di Chicago. E nei fatti il nodo da sciogliere è uno solo: se Harris deciderà di far sua la strategia neo-rooseveltiana sviluppata da Biden sulla scia della pandemia e della crisi geopolitica. In concreto: se vorrà impostare la sua eventuale presidenza sul tax-and-spend: senza tagli ai prelievi fiscali (anzi, con possibili appesantimenti, anche eventualmente patrimoniali) per finanziare sia la sanità pubblica che i nuovi sussidi alle imprese (transizione energetica, difesa, re-industrializzazione dei microchip e di altre produzioni).
La grandezza macro strategica si annuncia essere l’indebitamento: laddove perfino il Fmi ha iniziato a lanciare warning al Grande Paese del dollaro. E in prima fila ad attendere input sul futuro dei grandi debiti pubblici occidentali c’è certamente l’Ue. Che sulla carta ha rimesso in funzione l’algoritmo dei parametri di stabilità per l’euro, ma nei fatti è alle prese con gli stessi problemi politico-economici d’Oltre Atlantico, fors’anche in misura superiore.
I quattro anni di “guerra mondiale” avviati dalla pandemia e proseguiti con l’inflazione da guerra hanno indebolito il ciclo in tutti i Paesi Ue (anzitutto nella locomotiva Germania). Le finanze pubbliche, intanto, si sono ulteriormente “ristrette” anche per la necessità di sussidiare l’energia per famiglie e imprese. E la sfida della riconversione industriale (sul piano energetico o su quello militare) sta ponendo sul tavolo della Commissione von der Leyen 2 dossier pesantissimi: non finanziabili a regole date (quelle, non da ultimo, che la Corte Suprema tedesca continua a considerare infrangibili per il Governo di Berlino).
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