L’art. 32 della Costituzione recita: “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Premesso, a scanso di equivoci, che non ho titolo e competenze per discutere il dettato costituzionale (e tantomeno intendo farlo) e premesso pure che non posseggo l’interpretazione autentica (originale) che i padri della Repubblica hanno voluto attribuire a tale testo, la formulazione dell’art. 32 offre lo spunto per affrontare una questione di sostanza, e cioè: quando si parla di salute, la Repubblica cosa deve garantire? Il “diritto alla salute” o il “diritto alla tutela della salute”? La risposta alla domanda va al cuore del servizio sanitario cercando di mettere a fuoco la sua funzione sostanziale.
E allora partiamo dall’inizio: cosa è la salute? Paradossalmente non si trova una definizione di salute nei testi che hanno disegnato e/o modificato il Servizio sanitario nazionale: non c’è nella legge 833/1978, non c’è nel Dlgs 502/1992, non c’è nel Dlgs 229/1999, e non c’è nel Dpcm 29.11.2001 che ha definito i livelli essenziali di assistenza. Partiamo male, quindi, perché manca da subito la definizione del bene che deve essere tutelato: e allora che fare?
Non ci resta altro da fare che guardarci intorno alla ricerca di qualcuno che abbia fatto la fatica al posto nostro, ed in questa ricerca si incappa necessariamente nell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS-WHO), e nella definizione che ha proposto al momento della sua fondazione nel lontano 1946-1948: “Uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente l’assenza di malattie o infermità”.
Transeat sul fatto che questa definizione di salute appare più come una definizione di felicità (o almeno di molti aspetti di una vita ritenuta felice) più che di salute, ed accettando anche una sua (per quanto discutibile) riduzione più sanitaria (esempio: assenza di malattie o infermità), c’è qualche repubblica (o altra forma di governo) che sarebbe in grado di garantire questo diritto? In apparenza la risposta appare scontata, perché è evidente che nessuno è in grado di garantire la salute.
E infatti i documenti fondativi (e quelli successivi) del SSN non parlano di diritto alla salute ma si rifanno continuamente alla tutela della salute: e questo sì che è un diritto esigibile, un obiettivo che una amministrazione si può ragionevolmente porre.
Se però facciamo caso alle rivendicazioni dei politici e delle organizzazioni sindacali, se cerchiamo di farci aiutare dalle definizioni che si trovano in internet, se ascoltiamo i discorsi dei pazienti (e di tante loro associazioni) ma anche le considerazioni di molti esperti (provare con internet per credere), ci rendiamo conto dello spostamento che è avvenuto nella mentalità comune, dove il principio fondativo del “diritto alla tutela della salute” è stato di fatto trasformato nel “diritto alla salute” tout court, e se si guarda alle importanti conseguenze che ne derivano ci si rende facilmente conto che non si tratta di semplificazione o abbreviazione del linguaggio. Ad esempio, come scrive l’appello lanciato dalle associazioni Medicina e Persona e Banco Farmaceutico in occasione del Meeting di Rimini 2024, avere messo l’accento sul diritto alla salute “ha alimentato aspettative ingannevoli e introdotto un paradigma di efficienza che prelude, quale estrema conseguenza, al rifiuto di chi, perché vecchio o disabile, è ritenuto privo di valore sociale”. Ad esempio, l’accento sul diritto alla salute ha introdotto una pretesa di benessere che ha spostato l’interesse dei cittadini dalla richiesta della cura alla pretesa della guarigione, come dimostrano tanti eventi di protesta che accadono quotidianamente dentro i pronto soccorso degli ospedali o come risulta da molti dei contenziosi giudiziari aperti nei confronti degli operatori sanitari.
Di questo spostamento d’asse del diritto fondativo fanno parte anche le distorsioni attribuibili alla medicina difensiva, con il suo carico di prestazioni discontinue, non sempre necessarie, e soprattutto spesso non appropriate ed inefficaci, nonché l’accento sul prestazionismo che sta caratterizzando sia le strutture che i professionisti.
In questo modo viene a mancare l’essenza della cura, che non è un esclusivo atto sanitario ma è una relazione col paziente, una “alleanza terapeutica” (dicono ancora Medicina e Persona ed il Banco Farmaceutico) “a difesa del valore infinito della persona”: questa alleanza, questa presa in carico, questa compagnia, sono capaci di accogliere anche il vecchio ed il disabile, anche tutti coloro la cui condizione di fragilità è assolutamente lontana da (e incompatibile con) qualsiasi pretesa di salute intesa come “uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale”.
Se da una parte sarebbe opportuna una revisione di cosa si deve intendere per salute, probabilmente abbandonando la velleitaristica ed irraggiungibile pretesa presente nella definizione dell’OMS, dall’altra è evidente che occorre comunque abbandonare la impercorribile strada del “diritto alla salute” (perché indica un fine che non è raggiungibile) per imbracciare invece quella del “diritto alla tutela della salute”.
Per la tutela della salute occorre in primo luogo mettere l’accento su tutte quelle attività di prevenzione che vanno nella direzione di non portare nocumento allo stato di salute proprio e degli altri, comunque sia questo stato, ed è una attività che chiama in causa sia ciò che deve fare il Servizio sanitario, sia la responsabilità dei singoli cittadini attraverso l’adozione di comportamenti salutari e l’abbandono di abitudini dannose. E nel momento in cui lo stato di salute dovesse risultare indebolito e fragile al punto di necessitare di specifici interventi, la sua tutela richiede che l’accento si indirizzi sulla cura e sulla presa in carico del soggetto fragile, sia quando la prospettiva è quella della guarigione (o della esecuzione di una semplice prestazione) sia quando l’esito previsto è invece ben diverso, come in quella grossa quota di persone (stimata ben superiore al 30%) che risulta affetta da malattie croniche o da disabilità non guaribili oppure a quell’altra quota di persone che necessitano di essere adeguatamente e degnamente accompagnate al loro destino.
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